Quale futuro per Israele e Palestina?

Una terra condivisa e contesa. E un’ipotesi binazionale per il futuro. Fin dalla fine degli anni Venti è stato coltivato il progetto di uno Stato binazionale ebraico e arabo: una sorta di tradizione nascosta, che merita di essere valorizzata proprio in questo momento, se non altro per la statura dei suoi proponenti. L’analisi de “Il Mulino”.

Articolo pubblicato sulle pagine della rivista il Mulino a firma di Simon Levis Sullam

È difficile riflettere a mente e cuore sgombri sulla situazione in Israele e Palestina, mentre in queste ore risuona il fragore dei missili dai due lati, si contano centinaia di morti e forse non si sono ancora del tutto placati gli episodi di violenza tra ebrei e arabi israeliani in alcune città dello Stato ebraico. La spirale di una guerra sproporzionata e asimmetrica ha ripiombato le diverse parti in causa del conflitto mediorientale in una situazione apparentemente senza via di uscita e di tragico, ripetitivo stallo che risale in questi schemi e forma almeno ai tempi del precedente conflitto tra Israele e Gaza del 2014. E che nuovamente radicalizza, per motivi e con finalità diverse, i due principali contendenti in primo piano: l’Israele di Netanyahu (capo del governo de facto da quasi un decennio) e la Gaza di Hamas, ma anche la West Bank di Mahmud Habbas, con sullo sfondo gli altri decisivi giocatori: dagli Stati Uniti, all’Iran e alla Turchia, ma anche la Russia, la Cina, l’Egitto e i firmatari degli accordi di Abramo, Emirati Arabi e Bahrein, non esclusa l’Arabia Saudita che formalmente non ne fa parte.

Nonostante tutto, vale la pena provare a fermarsi e riflettere – anche in questi giorni drammatici e senza che ciò costituisca una via di fuga dalla realtà o una mancata ferma critica della violenza da entrambi i lati ‑ su quello che i principali contendenti, israeliani e palestinesi, hanno in comune – che è anche ciò che profondamente li divide. E allo stesso tempo riflettere sulle possibili vie di uscita, almeno teoriche e affidate dall’immaginazione politica, a proposte alternative allo scontro frontale, tra quelle che sono state formulate nell’ultimo secolo a proposito di quella regione e dei suoi storici, viscerali conflitti. Non solo per ricordarsi, nel momento in cui ogni possibilità di dialogo e convivenza pare nuovamente impossibile, che queste idee sono state formulate. Ma anche per coltivare la speranza che – quando le armi finalmente taceranno di nuovo – si possa cominciare a ricostruire relazioni e nuove forme di convivenza senza partire solo dalla tragica conta dei morti e senza ricostruire cominciando esclusivamente dalle macerie: sia degli edifici distrutti, sia dei tessuti politici e sociali lacerati tra israeliani e palestinesi, tra ebrei e arabi cittadini israeliani.

Un tema concreto e simbolico drammaticamente condiviso da palestinesi e israeliani, e prima da arabi ed ebrei, è quello della terra: della terra di origine, promessa, contesa e condivisa. Come condivisa – o, almeno, idealmente ed emotivamente condivisibile – è stata ed è l’esperienza che ha preceduto la conquista della, o ha seguito l’espropriazione e il possibile ritorno alla madrepatria: cioè l’esilio. Ma è sulla terra che particolarmente vorrei fermarmi, proprio per rilevare il problema dell’attaccamento simbiotico alla madrepatria, come è stato coltivato ed espresso ad esempio sul piano letterario da palestinesi e israeliani. Penso alle dense pagine del racconto del noto scrittore palestinese Ghassan Kanafani, Uomini sotto il sole(1962, trad. it. Sellerio, 1991) e a quelle oggi non tra le più note dell’israeliano David Grossman, nel suo reportage nei Territori occupati, uscito alla viglia della prima Intifada (Il vento giallo, trad. it. Mondadori, 1988).

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