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martedì, Marzo 4, 2025
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Quale ruolo dei democratici e riformisti per un’alternativa alle destre?

Andare alle elezioni senza vincoli eccessivi? Lode a Franceschini. Non è un'idea da dio Vulcano, ma solo di buon senso, per costruire una visione di paese improntata a un nuovo Umanesimo sociale.

Mentre nei territori c’è un gran fermento, e non si tratta solamente di qualche nostalgico democristiano, le premesse identitarie cominciano a definirsi nei toni e nei contenuti. Qui l’orizzonte sembra non appiattirsi ma definirsi in una profondità che impegna necessariamente ad una sfida non da poco.

Ed anche ambiziosa. Soprattutto per quella linea più marcatamente pluralista che vagheggia un raggruppamento delle diverse identità nell’ambito delle tre grandi culture, liberali, cattolico democratiche e socialiste, senza pregiudiziali primazie.

Eppure quell’idea banale, che ovviamente non ha richiesto ragionamenti metafisici, che spesso è più difficile raggiungere l’unità che marciare divisi per colpire insieme un avversario comune, sta scuotendo le segreterie delle forze di opposizione.

Anch’io, che l’avevo di recente affacciata in un mio articolo (“Il contrasto alle destre esige una nuova classe dirigente”) su questo giornale del 10 gennaio scorso, non ho dovuto fare alcuno sforzo di alta strategia, bensì pensata secondo un criterio del cosiddetto uomo comune. La sfida però non è assolutamente banale.

Siamo di fronte ad un avversario comune, non solo delle forze politiche democratiche e riformiste, ma di quello stesso popolo italiano al quale questa maggioranza vuole, a tutti i costi, sostituire, in Costituzione, quei punti nevralgici ove si tratteggia l’equilibrio dei poteri (baluardo contro ogni tentazione di chi vuole andare fuori dalle righe) con una versione illiberale e autoritaria (alludo alla riforma, attualmente sotto esame in una delle Camere, del cosiddetto premierato), e un Ordinamento repressivo e denso di iniquità normative evidenti.

Insomma lode a Franceschini. Ma non è un’idea da dio Vulcano, che sovente lasciava la sua Lemno per gli antri profondi del Mongibello dove forgiava armature e giavellotti: alludo al contesto scenico, una vera e propria officina meccanica con tanto di incudine e chiavi inglesi, nel quale si è fatto fotografare, durante una recente intervista, in occasione della quale ha lanciato la sua proposta a ciascuna forza che si intende collocare in un quadro di alternativa a questo governo, di mantenere la propria autonomia e identità negli spazi di voto proporzionale, oltre ovviamente ad intese strategiche sulla quota maggioritaria.

Un’idea, come detto, di buon senso che può avviare un processo comune per una visione di paese improntata ad un Umanesimo sociale, nel rispetto della dignità di ogni persona e ad un sistema Istituzionale che salvaguardi l’autonomia dei poteri dello Stato nel quadro della tutela delle libertà e dell’iniziativa privata, che non dimentichi anche quella funzione sociale richiamata dalla nostra Carta, affinché non trasmodi in forme di prevaricazione di principi universali e di poteri statuali e sovranazionali.

Ed è in questa sintesi che si innerva il messaggio di alternativa di governo e di visione di paese nell’alveo dei valori, che i padri costituenti seppero incorporare nella Carta fondamentale. Tuttavia in questo dibattito sul centro, da tempo intensamente impegnato nel definire ragioni, metodi e contenuti, pesa il palese interrogativo su quale reale funzione esso possa svolgere nell’attuale sistema bipolare.

Mentre si fa sempre più stringente la domanda su cosa può attrarre il consenso di un elettore che da tempo non va a votare. Le dinamiche sono tante e non tutte pervadono allo stesso modo le sensibilità personali. Ma quello che preoccupa è soprattutto quella crescente tendenza a lesinare, all’interno della previsione che la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione, ogni barlume di partecipazione alle scelte della vita del paese nella convinzione che siano le forze politiche ad incaricarsi della cura degli interessi, che oggi un diffuso populismo seleziona come preminenti e ineludibili non solo nel nostro paese, affidando disinvoltamente delicati poteri e compiti a magnati e oligarchi del turbocapitalismo e creando disparità e diseguaglianze tra ceti sociali.

Mentre non c’è un denominatore comune sul mutamento del sistema elettorale. Tanto che vien da chiedersi se c’è davvero una ripulsa sul sistema di voto che di fatto impedisce una scelta efficace sulla selezione dei candidati, fino a ridurre a formale ratifica le scelte operate preliminarmente dalle segreterie dei partiti. A ciò si aggiunga la brutta aria che da tempo aleggia nei rapporti tra poteri dello Stato.

Con la recente approvazione, in prima lettura alla Camera, della riforma costituzionale, con cui questa maggioranza sta perseguendo l’obiettivo di separare le carriere tra magistrati requirenti e magistrati giudicanti, il dialogo tra magistratura, governo e parlamento sembra conoscere punti di tensione, mai raggiunti prima.

Qui, due preliminari considerazioni si impongono necessarie. La prima. L’art.111 della Costituzione prevede che: “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”.                                                                            Da questa norma ne discende, inequivocabilmente, una precipua azione di riequilibrio costituzionale ed ordinamentale in capo al parlamento.                                                                                                        Mentre è chiaro che solo un giudice realmente equidistante dalle parti può apparire e percepirsi imparziale in ogni circostanza; con l’altra considerazione si intende sottolineare il fatto che in quasi tutti i paesi della stessa Ue non esiste alcun comune inquadramento all’interno di un medesimo organismo di autogoverno, deputato a decidere sulle carriere sia dei magistrati giudicanti che dei magistrati requirenti.

Nessuno in questi paesi grida allo scandalo, o ne fa una battaglia politica per la riunificazione in unico organismo a salvaguardia della loro autonomia.
Il problema che sorge, nella specificità del nostro caso, attorno a cui si è arroventato il dibattito e lo scontro con la scelta, in itinere, del parlamento, sta nel fatto che talune forze politiche, artefici della riforma sembrano aver agito in un’ottica più avvezza ad un clima di contrapposizione che di dialogo tra Istituzioni dello stato.

Non a caso un’alternativa a questo governo servirebbe anche a riportare quei tratti di un sereno e rispettoso dialogo che, funzioni così importanti per la vita del paese, non possono non aver cura di mantenere.