Il diplomatico svedese fu definito da John Kennedy «il più grande uomo politico del Ventesimo secolo». L’articolo è pubblicato per gentile concessione del quotidiano ufficioso della Santa Sede.
Lorenzo Fazzini
Cosa c’è nel retrobottega culturale di un grande uomo politico? Quali le sue letture ispiratrici? Quali i legami intellettuali che ne irrigano l’azione? Quando si ha a che fare con un personaggio come Dag Hammarskjöld, il diplomatico svedese di confessione luterana, profondamente credente, che fu per due mandati segretario generale dell’Onu (dal 1953 al 1961, vittima di un incidente aereo di natura dubbia nel Congo dilaniato dalla guerra civile), scandagliare il suo retroterra di pensiero diventa l’occasione per imbattersi nel meglio della cultura umanistica del Novecento.
Perché Hammarskjöld sapeva intrattenere relazioni e contatti di altissimo livello, dialogando e argomentando con scrittori, filosofi e pensatori sulla propria posizione diplomatica di delicata statura (siamo del resto negli anni della Guerra fredda). Roger Lipsey, biografo del diplomatico delle Nazioni Unite, ci offre questa possibilità nel suo nuovo libro Hammarskjöld: etica e politica (Qiqajon, Biella 2021. pagine 156, euro 16), dal quale si evincono moltissime notizie. Come, ad esempio, il fatto che il politico svedese era amico e confidente del grande scrittore americano John Steinbeck, l’autore dell’indimenticato Uomini e topi.
Con Steinbeck sono numerosi i dialoghi epistolari; come quando a lui confida il principio cardine del proprio agire diplomatico: «Sedersi per terra e parlare con la gente, ecco la cosa più importante». Oppure, è proprio allo scrittore che affida una fatica d’animo con queste parole: «Tutti quei compromessi che, ingannando noi stessi, preferiamo ignorare fino a chiamarli piccoli». E, ancora, un’ammissione di radicale candore: «Potrei desiderare raccontarti alcune cose che vedo accadere e che davvero rendono la perseveranza nella fede tanto necessaria quanto ardua».
Hammarskjöld, considerato da John Kennedy nientemeno che «il più grande uomo politico del XX secolo», era capace di unire azione politica e coltivazione dello spirito interiore con una ricerca sempre tesa alla fecondità reciproca (infatti il suo diario Tracce di cammino resta una delle opere più alte della mistica novecentesca). In questo processo decisivi sono stati, per esempio, i rapporti con un gigante del pensiero come Martin Buber, di cui era amico personale: Lipsey ricorda come, quando arrivò in Congo per mediare nel conflitto, Hammarskjöld avesse tradotto in aereo in svedese il fondamentale Io e tu del pensatore esperto di chassidismo. Citando alcune espressioni di Buber in una lettera a Eyvind Johnson, Hammarskjöld scrive: «Il vecchio mistico classifico ha dato nella sua vecchiaia alcune delle espressioni più pure e toccanti per la “conversione”, in cui, come uno dei vecchi profeti, vede l’unica salvezza. “La sola risposta alla diffidenza è nella sincerità” […] Come professionista del campo rischioso della politica internazionale, non posso che confermare quanto abbia ragione».
Lipsey, nelle sue pagine, rintraccia anche un debito personale intellettuale di Hammarskjöld verso Albert Camus, sebbene non suffragato da prove certe, ma individuato nella forte sottolineatura che l’autore francese dava al dialogo, alla capacità di argomentare ed entrare nel confronto con l’altro senza perdere la propria identità.
Lettore di Henri Bergson da giovane, amico personale dello scrittore e compatriota Premio Nobel Pär Lagerkvist (l’autore del celebre Barabba), Hammarskjöld coltivava, da buon scandinavo, un rapporto viscerale e primordiale con la natura: Lipsey ricorda come facesse lunghe camminate e periodi di esplorazione alpinistica che lo tenevano immerso nel contatto con il creato. Accanto alle letture di Tommaso da Kempis e Maister Eckhart, di cui sono intrise le pagine di Tracce di cammino, questo elemento naturalistico ha forgiato lo sguardo contemplativo del diplomatico di vaglia: «Queste letture trovarono il loro posto accanto alla sua esperienza di silenzio, di quiete, e di qualcosa come l’eterno presente nell’estremo nord scandinavo, dove da giovane amava fare trekking e praticare la montagna. Le esperienze fatte nella natura selvaggia furono per lui così toccanti che egli ne portò per sempre le tracce, e anche qualcosa di più, dentro di sé».
Con queste pagine di Lipsey, dunque, si può viaggiare intellettualmente dentro il pensiero e la costruzione della visione intellettuale di un uomo che ha vissuto la politica internazionale del secondo Novecento da grande protagonista, cercando costantemente di perseguire il bene comune, di difendere la dignità della persona, di ottenere la pace ed evitare la guerra, attraverso una costante e indomita propensione al dialogo e alla negoziazione. Letture simili possono essere di stimolo per quegli uomini e donne che, impegnati nella res pubblica, spesso rischiano di restare invischiati nel “respiro corto” che la vita politica attuale ha. Sapendo che attingendo alla dimensione dello spirito, anche la pratica amministrativa o diplomatica può trarne benefici miglioramenti.