Per anni salute mentale e malattie cardiovascolari sono state considerate ambiti distinti, affidati a competenze, percorsi e linguaggi diversi. Oggi questa separazione appare sempre più artificiale. La ricerca scientifica dimostra che depressione, ansia e stress cronico non solo accompagnano le patologie cardiache, ma ne influenzano in modo diretto l’insorgenza, l’evoluzione e gli esiti clinici. Una connessione profonda, che riguarda milioni di persone e pone interrogativi nuovi al sistema sanitario, chiamato a ripensare prevenzione e presa in carico in modo integrato.
Di questo si è discusso anche al recente congresso della Società Italiana di Cardiologia (SIC), dove Lucy Barone, cardiologa da tempo impegnata su questi temi e confermata nel Consiglio regionale SIC del Lazio, ha presentato una relazione dedicata al nesso tra salute mentale e patologie cardiovascolari. Con lei abbiamo provato a fare il punto.
Dottoressa Barone, lei si occupa da tempo del rapporto tra salute mentale e patologie cardiache. Può darci una prima fotografia del fenomeno? Quanti sono i casi riscontrati in Italia?
«Parliamo di numeri rilevanti. In Italia oltre il 30% dei pazienti con patologie cardiovascolari presenta disturbi depressivi o ansiosi clinicamente significativi. Allo stesso tempo, chi soffre di depressione maggiore ha un rischio cardiovascolare aumentato fino al 50%. Non si tratta quindi di una semplice coincidenza, ma di una relazione bidirezionale che incide su prognosi, aderenza alle terapie e mortalità».
Quali sono oggi le principali tendenze osservate e quali i processi in corso per rafforzare la prevenzione? Esiste un piano strutturato?
«La tendenza più chiara è il superamento di una visione esclusivamente specialistica. La cardiologia moderna deve integrare la valutazione del benessere psicologico, anche attraverso strumenti semplici di screening. Tuttavia, in Italia non esiste ancora un piano nazionale organico che colleghi in modo sistematico salute mentale e prevenzione cardiovascolare. Ci sono esperienze locali e buone pratiche, ma manca una strategia condivisa. Un piano sarebbe non solo utile, ma necessario».
Guardando al futuro, cosa dobbiamo aspettarci?
«Dobbiamo puntare su una medicina sempre più centrata sulla persona. Il futuro è fatto di équipe multidisciplinari, formazione continua e prevenzione precoce, capace di tenere insieme fattori biologici, psicologici e sociali. Curare il cuore significa anche curare la mente: è una nuova frontiera che dobbiamo rendere strutturale».

