Tratto dall’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Fabio Bolzetta

Nell’oceano dei media digitali e sociali, la discussione di temi divisivi come l’immigrazione viene spesso sommersa dal dilagare di contenuti ostili. Nella cultura convergente le forme di partecipazione permesse dalle nuove tecnologie — che offrono spazio e libertà ma riducono ogni competenza a un confronto orizzontale — vengono vissute con un atteggiamento di deresponsabilizzazione da parte degli utenti ancora oggi.

Al dilagare di informazioni volutamente false, le cosiddette fake news, si assiste alla diffusione di contenuti e commenti rancorosi favoriti dai like e dalla condivisione, spesso virale, sui social media. Una proliferazione policentrica di hate speech e pregiudizi che reagiscono in maniera epidermica alla cronaca diventando forme di razzismi 2.0 digerite come proposte interpretative di una società e un mondo percepiti come complessi, incompresi e inaccettati. Dove l’altro viene opposto all’io e al noi di un agglomerato sociale o social. 

L’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar), istituito in Italia presso il Dipartimento pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri, secondo i dati diffusi nel 2017, ha giudicato pertinenti in un anno duemilaseicentocinquantadue istruttorie. Il 69 per cento riguardano fatti discriminatori per motivi etnico-razziali di cui, per il 17 per cento si tratta di eventi riguardanti le comunità rom, sinti e caminanti. Il monitoraggio, presente sui media tradizionali, è stato esteso anche a social network e social media. A seguito delle segnalazioni dei cittadini sono stati individuati 1.598 casi online di discriminazione nel 2012, 1.396 nel 2013, 1.627 nel 2014, 2.235 nel 2015, 2.936 nel 2016 e 3.909 nel 2017. 

In Italia opera una seconda autorità: l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad). Istituito nel 2010 presso il Ministero dell’interno riceve segnalazioni, anche via mail, e attiva interventi da parte della Polizia e dei Carabinieri. Nel 2017 ha ricevuto 2.030 segnalazioni. L’87,5 per cento dall’Unar. Il 90,1 per cento dei casi online riguardavano quelli relativi alla discriminazione razziale. 

Stefano Pasta, dottore di ricerca in Pedagogia presso il Centro di ricerca sull’educazione ai media dell’informazione e alla tecnologia (Cremit) e sulle Relazioni interculturali dell’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano nel volume Razzismi 2.0. Analisi socio-educativa dell’odio online (Brescia, Scholé-Morcelliana, 2018, pagine 224, euro 20) ha individuato cinque tipologie contemporanee di razzismo, diffuse nell’ambiente digitale e social: il razzismo tribale, mirato, dei fatti, di necessità ed estremo. 

Il primo è caratterizzato dal frequente ricorso agli insulti in una «lotta tra tribù per affrontare la superiorità dell’una sull’altra». Il razzismo mirato invece è caratterizzato dall’aggressività verso target specifici, soprattutto persone di colore. La diversità anziché ricchezza viene giudicata come un elemento da contrastare affermando che «una persona con tratti somatici stranieri, indipendentemente dai propri sentimenti di appartenenza e da quanto tempo abbia vissuto in Italia, non potrà mai essere considerata italiana». Tesi non raffinate, ricorso frequente a un certo tipo di ironia, istituzioni tacciate di buonismo e richiamo a decisioni «serie e forti». 

Il razzismo dei fatti vede «presunte evidenze oggettuali ripostate come verità diventare argomentazioni contro la sostenibilità delle politiche di accoglienza, unitamente al tema dell’erosione delle risorse del welfare. Il linguaggio è pacato nei toni ma violento nei concetti». Nel razzismo di necessità non accettando le presenze altrui si è rassegnati a convivere auspicando «soluzioni di fronte alle questioni poste dall’alterità (stranieri, rom, musulmani, profughi)». Nell’ultima definizione, invece, si raccolgono i giudizi più estremi quanto a contenuti e rifiuto dell’altro: si tratta di una «intolleranza totale verso le differenze. La richiesta non è più di tipo normativo, ma punitiva, e non lascia spazio a prospettive del vivere insieme». 

Il campione della ricerca è stato costituito da centotrenta performances razziste online in lingua italiana di duplice provenienza: quaranta casi di discriminazione su base etnica, appartenenza nazionale o provenienza geografica, trattati dall’Unar e altri novanta reperiti in ambienti digitali a rischio. Il ricercatore ha contattato direttamente gli autori dei post e ha condotto conversazioni digitali per provare a farli riflettere sui contenuti pubblicati. È emersa, soprattutto nei giovanissimi, la pretesa a non essere presi sul serio. «Rivendicano un atteggiamento deresponsabilizzato e banalizzante, proprio perché online» spiega Pasta. «Tutto ciò ha una grave conseguenza online quanto offline. Perché si normalizzano, e quindi si accettano, idee ed espressioni di violenza su cui, fino poco fa, vi era una condanna sociale».

Ma è lo stesso web a poter offrirne gli anticorpi. Secondo Pasta — che nel 2017 ha ricevuto il Premio di giovane ricercatore dalla Società italiana di ricerca sull’educazione mediale (Sirem) — «con i nuovi media non basta più educare lo spettatore, occorre anche educare il produttore che ogni spettatore è diventato, grazie allo smartphone che si porta in tasca, sviluppando pensiero critico (nella selezione delle fonti e nel riconoscere le fake news), ma soprattutto responsabilità, ossia attenzione alle conseguenze delle proprie azioni. Papa Francesco ci ha invitato a una comunicazione che non semini odio, non sia il megafono di chi urla più forte e non propaghi fake news. Nell’analisi svolta all’Università cattolica, emerge come la selezione delle fonti sia un fronte educativo decisivo: soprattutto sul tema dell’immigrazione, le fake news sono spesso alla base di odio xenofobo, in continuità online e offline. Trovano diffusione perché siamo nell’era della post-verità dove le convinzioni personali e le emozioni contano più della veridicità dei fatti. La proposta è un approccio morale che educhi online e offline a comportamenti di aiuto e cooperazione, orientando a essere non solo naturalmente, ma anche culturalmente, “negli” altri e “per” gli altri».