Il Pd aveva due possibilità: allargare anche ai 5 Stelle la coalizione, per renderla competitiva, o qualificarla in senso riformistico. La soluzione intermedia non garantisce la presa sull’elettorato. In particolare, la rottura con Calenda ha sbilanciato a sinistra non solo l’alleanza elettorale, ma lo stesso Pd perché ora alla sua destra, al centro, vi sono due partiti e una coalizione e saranno loro ad attirare, eventualmente, i voti in libera uscita dal centrodestra. Ora, se il Pd deve essere il partito della sinistra italiana, diversamente dall’originario obiettivo di centrosinistra a vocazione maggioritaria, lo deve decidere un congresso. E poi ciascuno farà le sue valutazioni
In campagna elettorale non è uso svolgere ragionamenti. E se li si fanno, lo sono a futura memoria. Questo è il caso. Michele Salvati ha proposto nei giorni scorsi sul Corriere della Sera una riflessione sul Partito Democratico assai onesta e piuttosto sconsolata. Non se la prende con il segretario attuale del partito ma riconosce che il Pd mantiene “un antico difetto di costruzione” che invariabilmente porta a bruciare in breve tempo i suoi leader provvisori (ovvero il segretario di turno): e ciò accade – questa l’osservazione più brutale ma reale – in quanto il Partito “non è riuscito a creare un senso di comunità, di appartenenza e di identità forte quanto è necessario a consentire la convivenza di inevitabili differenze di opinione”.
Salvati, che è un convinto sostenitore del Pd da sempre, su posizioni liberali di sinistra, specifica dal suo punto di vista: “Non è riuscito a creare una identità nuova, di sinistra liberale, e dunque diversa da quella delle forze politiche che confluirono nella formazione del partito”. Ciò produce l’incertezza politica che si manifesta ogni qualvolta occorra assumere decisioni strettamente politiche quali le alleanze sono. Problema che viene surrettiziamente risolto, in ogni circostanza, con l’individuazione del nemico assoluto, l’avversario della democrazia, o noi o lui. Ieri Berlusconi, oggi la Destra di Meloni e Salvini. Un escamotage che va bene per la propaganda ma che non risolve il problema di fondo. Che così continua a riproporsi.
In queste elezioni, con la Destra in netto vantaggio secondo tutti i sondaggi, e ovviamente tenendo presente la legge elettorale in vigore, le vie per i centrosinistra e segnatamente per il Pd erano due, nel tentativo di sovvertire i pronostici.
Tentare col “campo largo”, ovvero l’alleanza con la Sinistra più radicale e con i 5 Stelle. Ma la venuta meno del sostegno di questi ultimi al governo Draghi ha precluso questa scelta. Che a mio avviso, lo dico per chiarezza, era comunque errata, poiché il movimento fondato da Grillo resta nella sostanza populista e anti-sistema, intrinsecamente individualista e ora schierato da Conte a sinistra per mero opportunismo (al di là delle convinzioni di alcuni suoi esponenti, pochi peraltro, come il Presidente della Camera, Roberto Fico).
L’altra via era quella di esaltare il profilo riformatore ed europeista del Pd (coerentemente con i propri valori fondativi e con l’attività svolta a supporto del governo Draghi) e con questo cercare di strappare quanti più elettori possibili alla Destra, posta la preminenza di Fratelli d’Italia e della Lega su Forza Italia, quest’ultima ulteriormente indebolita dall’uscita di persone importanti come Gelmini e Carfagna e inoltre riportata da Berlusconi su una posizione assai meno moderata di quanto egli stesso ha voluto far credere negli anni più recenti.
L’alleanza con Azione aveva questo senso. Provare a conquistare uno spazio – chiamiamolo, ma solo per comodità, “centrale/moderato” – presso elettori (parlo di elettori, di cittadini comuni, non di ceto politico: la differenza è sostanziale) che non votando più a destra avrebbero doppiamente rafforzato il centrosinistra. Ma per essere più credibile, anzi realmente credibile, questa coalizione avrebbe dovuto essere allargata a tutti quelli che avevano sostenuto Draghi (dunque anche Italia Viva) ma non a chi vi si era opposto (dunque, a sinistra, sì a Liberi e Uguali/Articolo Uno di Speranza e Bersani ma no a Sinistra Italiana di Fratoianni).
Fra l’altro l’alleanza con il centro avrebbe rafforzato proprio il Pd, confermandone il profilo originario de centrosinistra. E assegnandogli – anche nei voti lista, certamente – la netta primazia.
È stato quindi un errore aver allargato l’alleanza elettorale a Sinistra Italiana e Verdi (tanto più che il tema ambientale è già presente nel Pd e semmai andava rafforzato con candidature prestigiose del mondo ambientalista riformatore e non delegato a una formazione colpevole da lustri di aver relegato una intuizione così importante ad appendice di una sinistra radicale inconcludente e marginale in termini di consenso popolare).
Poco importa stabilire se Calenda ha colto l’occasione per abbandonare l’alleanza, il fatto è che gli si è fornita l’occasione per farlo. Sbilanciando così a sinistra non solo l’alleanza elettorale, ma lo stesso Pd perché ora alla sua destra, al centro, vi sono due partiti e una coalizione e saranno loro ad attirare, eventualmente, i voti in libera uscita dal centrodestra. Non più il Pd.
Non solo. Avendo i centristi una capacità di attrazione inferiore al Pd (per via della base di partenza dei consensi assai inferiore) saranno probabilmente di meno gli elettori di centrodestra che abbandoneranno quell’area, data per vincente, vedendo che il Pd – unico partito che poteva aspirare a cambiare l’esito elettorale pronosticato dai sondaggi – si è schierato a sinistra, e quindi per essi rimasto invotabile. Si è insomma regalato ossigeno a Forza Italia e agli stessi leghisti che nelle regioni settentrionali guidano con concretezza le proprie comunità lasciando ai margini il radicale verbo salviniano.
Letta non ha potuto fare di più, si dirà. Probabilmente è così. Le pressioni della sinistra interna, già in lutto per la rinuncia all’accordo con i 5 Stelle erano troppo forti per non dar loro ascolto. Resta che così le possibilità di vittoria sono ulteriormente diminuite. Probabilmente annullate.
E allora torniamo al discorso di fondo. Che un congresso vero (non Primarie: un congresso vero) dovrà definire. Se il Pd deve essere il partito della sinistra italiana, diversamente dall’originario obiettivo di centrosinistra a vocazione maggioritaria, lo deve decidere un congresso. E poi ciascuno farà le sue valutazioni. Un congresso, beninteso, di delegati dei suoi iscritti e militanti, non dei suoi vertici professionali. Perché questi ultimi – di ogni età e di ogni sesso – hanno dimostrato in tutti questi anni (pur con le dovute e dignitose eccezioni) di essere mossi da calcoli opportunistici legati alle carriere personali. Che interessano solo a loro. Non agli iscritti e militanti del partito.