Sono passati molti anni dal 16 marzo 1978 e dal tragico evento dell’assassinio della scorta e del rapimento di Aldo Moro.

Ma non si vuol rievocare una vicenda, per buona parte acclarata, soprattutto dopo la seconda commissione di inchiesta parlamentare, che può essere definita con il giudizio dell’allora Rettore dell’Università degli Studi di Urbino, Carlo Bo: “L’assassinio di Aldo Moro è stato l’omicidio dell’abbandono.”

Si tratta, invece, di riflettere sul pensiero moroteo, sulla sua lungimiranza politica internazionale e su come proprio la sua morte ha cambiato lo stesso corso della storia politica italiana ed europea.

Aldo Moro, uno tra gli statisti (insieme a De Gasperi) più lungimiranti della storia politica italiana.

Benigno Zaccagnini amava ripetere che se Alcide De Gasperi aveva un grande senso dello Stato, Aldo Moro aveva qualcosa in più, ossia anche un grande senso della storia.

Ed infatti, non si può far politica, nel senso più alto del termine, se non si ha senso della storia.

Innegabile è il rilevare che proprio la virtù morotea del grande senso della storia, aveva portato lo statista pugliese a delineare tre fasi della vita politica italiana repubblicana.

La prima fase era quella dell’Assemblea Costituente e poi del Tripartito, nella quale tutte le forze politiche democratiche collaborarono sia per la stesura della Carta Costituzionale, sia nel Governo del Paese per la ricostruzione dopo la sciagurata guerra mondiale.

La seconda fase era quella del centrismo e poi del centrosinistra, in quanto veniva a realizzarsi quella che Leopoldo Elia aveva coniato efficacemente con la definizione di conventio ad excludendum nei confronti del Partito Comunista Italiano.

Ma la crisi del centrosinistra di fine anni Sessanta, la protesta studentesca ed operaia del Sessantotto, portarono Moro a studiare per capire questi eventi sociali rivoluzionari in funzione della difesa della Costituzione repubblicana e per irrobustire le strutture dello Stato democratico.

Moro intuisce che la società stava cambiando, che i vari settori volevano essere attori della democrazia, che il mondo studentesco rivendicava una libertà anche di costumi, che non era più prorogabile il riconoscimento ai lavoratori di un proprio statuto e quindi diritti e salari più dignitosi.

Ma in questo contesto, se nel PCI si faceva strada la politica di Berlinguer (ispirata da Franco Rodano) di una presa di distanza dalle posizioni di Mosca, nella DC la prepotenza dorotea era dominante e soffocante in termini di gestione del potere.

Occorreva, allora, mettersi in una posizione di opposizione interna alla DC per elaborare una nuova linea politica più avanzata ed in sintonia con le nuove istanze della società.

Moro se ne convince ancor di più soprattutto dopo la crociata democristiana e i risultati elettorali del referendum sul divorzio del 1974 e, quindi, inizia a lavorare per una nuova linea politica di avanguardia.

Ma per far questo, egli era consapevole non solo della necessità di una DC unita, ma soprattutto che occorresse una guida politica credibile, interprete dell’antifascismo e dei valori della Costituzione.

L’operazione morotea raggiunse il successo quando, anche con alcune defezioni dorotee (Mariano Rumor), venne eletto Benigno Zaccagnini alla segreteria politica della DC.

Molti avevano pensato ad una sorta di segreteria di transizione in attesa che le acque interne si placassero, ma Moro conosceva benissimo Zaccagnini: dietro quel volto che ispirava serenità e sincerità, vi era un animo romagnolo che aveva combattuto nella resistenza al fianco dei comunisti, che aveva aderito alla sinistra democristiana di Dossetti e, soprattutto, che concepiva il potere non come fine ma come strumento per il bene comune.

Ed infatti, con Zaccagnini il progetto moroteo iniziava a prendere forma: non più la politica dello scontro con i comunisti, ma quella del confronto. La DC, sotto l’iniziativa di Zaccagnini, cominciava a riconquistare credibilità, umanità; i giovani (che non lo conoscevano) erano affascinati dai suoi discorsi sulla moralità della politica; nelle fabbriche tornava la proposta politica di un partito che soltanto qualche mese prima era considerato di potere e conservatore.

La Terza Fase della politica italiana iniziava il suo percorso e destava ammirazione nei ceti popolari, ma diffidenza ed opposizione a livello internazionale, nei centri di potere, all’interno dei due blocchi (USA ed URSS), nelle realtà economiche che detenevano la stragrande maggioranza della ricchezza mondiale.

Moro aveva in animo il coinvolgimento di tutte le masse popolari (così come avvenne nella prima fase della Repubblica), ma non in funzione di quello che volgarmente viene definito consociativismo, bensì su un disegno politico ancora più grande: aiutare il PCI a sganciarsi definitivamente dall’Unione Sovietica in vista di un eurocomunismo che gradatamente portasse alla messa in discussione della Conferenza di Jalta al fine di costruire una Europa dei popoli, ma nel contempo realizzare anche in Italia le condizioni di un’alternanza al potere fra forze politiche popolari e democratiche.

La Terza Fase, però, si esaurisce con il suo rapimento e poi con il suo assassinio. Ma certo, quella Terza Fase oggi dimenticata, andrebbe rimeditata e valutata, pur in presenza di uno scenario politico completamente mutato.