Sui referendum promossi dalla Cgil il Pd si è espresso con quattro sì, come pure sulla cittadinanza, per un totale di 5 sì. Una linea netta? Neanche per sogno. Questa mattina su Repubblica un gruppo di qualificati esponenti della minoranza riformista, di cui Guerini è la figura di maggiore spicco, ha firmato un documento che rimette tutto in discussione: tre no (con il sì ristretto al quesito sugli appalti) e un altro sì, più scontato, sulla cittadinanza. Una posizione che confligge apertamente con quella ufficiale del partito essendo, rispetto ad essa, preoccupata di difendere la sostanza della normativa sul Job Acts.
A compensazione, viene enfatizzata la convergenza con la segreteria a riguardo del quinto quesito. «La cittadinanza non può essere concessa a metà», si legge nella nota; e dunque «è tempo di superare ogni ambiguità». Un’affermazione che colpisce più per la sua forza politica che per la sua novità, se si pensa che il tema è in agenda da almeno due legislature e vede uniti i diversi settori dell’area riformatrice.
Chi tace acconsente?
A questa presa di posizione, coraggiosa benché ancora imprecisa rispetto alla chiarezza adamantina dei 4 sì e 1 no di Libertà Eguale (Morando e Tonini), fanno da contraltare i silenzi dei cattolici di Demos (Paolo Ciani) e di Comunità democratica (Graziano Delrio e Castagnetti). Vale comunque per essi, al pari di tutto il centrosinistra allargato, comprensivo pertanto di Italia Viva e Azione, il sì sulla cittadinanza.
La reticenza dei cattolici progressisti rende poco attendibile lo sforzo teso a integrare e correggere la linea della Schlein. Sta di fatto che il Pd, con questa varietà di scelte e atteggiamenti, mette in mostra la sua fragilità. A meno di considerare valida e vitale, come da sempre sostiene Tempi Nuovi, la trasformazione operata dalla “cura Schlein” per la quale il Pd non è più il luogo d’incontro di tutti i riformisti (progetto iniziale) bensì la nuova incarnazione della sinistra – e di quella, in particolare, che recupera quel che si può recuperare della tradizione comunista e post comunista.
Un nuovo partito di centro
Diventa perciò inevitabile distinguere – ancora in sintonia di Tempi Nuovi – i “riformisti” dai “radicali”, volendo con questo lessico semplificare molto, per riorganizzare una dialettica che riconosca nella componente cattolico popolare e democratica uno dei pilastri di un nuovo partito di centro.
Non si tratta più di salvare un partito, come che sia, ma di distinguere un campo. I cattolici popolari e democratici devono farsi carico di una seria proposta riformista, ben lontana da tutti gli oltranzismi. Senza più illusioni, perché il Pd non cambia e con Schlein, alla luce della stessa vicenda dei referendum, non cambia la linea che il vasto elettorato antipopulista decisamente rifiuta.