L’autorevole amico Lucio D’Ubaldo, mi ha “ordinato” di commentare il discorso pronunziato da Gronchi davanti alla Camere riunite per la Sua elezione a Presidente dela Repubblica.

Mi accingo ad ubbidire, anche agevolato dalle circostanze dell’intensa amicizia tra Gronchi e mio padre Giuseppe, allora Presidente della Regione Siciliana e delle confidenze che lo stesso in seguito mi diede.

Gronchi aveva due qualità rare: una voce suadente e gli occhi trasparenti e bellissimi, oltre ad essere dotato di profonda cultura.

Ma sul Suo discorso, ritenuto universalmente tra i migliori pronunziati dai Capi di Stato del mondo intero e ancora oggi ritenuto di una modernità essenziale e rara, vi è una “parentesi” che va raccontata.

Quando Gronchi era Ministro dell’Industria, fu invitato da mio padre a Palermo e nella sede del Banco di Sicilia, sollecitato dal Presidente Bazan e dal Direttore Generale La Barbera, tenne un discorso sullo sviluppo economico del Paese.

Alla fine della prolusione ci furono scroscianti applausi e Bazan che presiedeva la riunione, osservò se vi era qualcuno che volesse intervenire.

Si alzò il giovane palermitano professore di Economia Politica, Giuseppe Mirabella, che fece letteralmente a pezzi il discorso di Gronchi.

Il Presidente Bazan e il D.G. La Barbera si misero le mani nei capelli e si scusarono continuamente con Gronchi “per l’incidente”.

Ma Gronchi rispose: “No, ma no, desidero che questo giovanotto così audace e colto e coraggioso venga distaccato presso il Ministero che dirigo, e sarà il mio consulente”.

Così avvenne.

Passarono degli anni e poi Gronchi fu eletto Presidente della Repubblica e confermò Mirabella al Quirinale come suo consulente economico.

Un giorno Gronchi chiese a Mirabella perché malgrado i suoi servigi, mai aveva chiesto allo stesso un minimo favore dopo tanti anni.

Alle insistenze di Gronchi, Mirabella rispose titubante che gli sarebbe piaciuto diventare Vice Direttore Generale del Banco di Sicilia, dove lo stesso era impiegato con incarichi di valore.

Gronchi telefonò a mio padre, allora Presidente della Regione Sicilia, e lo pregò di interessarsi del caso Mirabella presso gli organi apicali del Banco di Sicilia.

Il Presidente Alessi allora convocò il Presidente Bazan ed il D.G. La Barbera e con molto tatto e prudenza espresse loro quali fossero le aspettative del professore Mirabella a conoscenza, però, del Presidente della Repubblica.

“Mai e poi mai” risposero all’unisono i due esponenti. “Piuttosto ci dimettiamo”.

Mio padre gelido prese un foglio in bianco e rispose a loro: “Prego, firmate qua”.

Naturalmente, e con merito Mirabella, raggiunse il suo obiettivo.

Essendo io assistente v. di Storia Moderna presso l’Università di Palermo ed essendo l’aula degli esami vicina a quella di Mirabella, quasi sempre mi chiamava per assistere ai suoi esami che erano “originali ed unici”.

Lo stesso, spirito acuto e “briccone, iniziava gli esami così: “Quelli raccomandati dai Parlamentari nazionali a destra, quelli raccomandati dai Parlamentari regionali a sinistra, quelli raccomandati dal Cardinale Ruffini un poco più avanti, e i pochissimi bravi e preparati si avvicinino alla cattedra”.

Ma l’esame per me indimenticabile fu quello con un ragazzo che si presentò con i capelli lunghi ed impomatati sino all’osso.

Mirabella gli chiese con un filo di voce: “Hai studiato?” e l’esaminando con un vocione da basso e fraseggio siculo, rispose:”Ma cetto,cetto ch’io studiai”. E il professore ancora: “Hai ripassato il libro di Economia Politica anche qui sotto nell’atrio ?”.  E quello di rimando: “Cetto, cetto prufissori “.

Mirabella si fermò pensoso e chiese:”Ed allora quante colonne ci sono nell’atrio?”. E lo studente: “Ma pruffisori che va domandando?”. Ma Mirabella fu fermissimo.” Vattinni e la prossima settimana torna”.

Passò la settimana e l’usciere mi informò che il professore Mirabella mi voleva seduto accanto a Lui per la sessione di esami.

Mi recaci nell’aula dove svolgeva gli esami e notai subito lo studente con i capelli ancora più lungi e impomatati.

Venuto il suo turno, il professore Mirabella lo fissò a lungo con gli occhi suoi azzurrizzimi e ipnotici e poi, more solito, la domandina: “Hai studiato e ripassato il testo anche nell’atrio?”. E il ragazzo agitato rispose: “Cetto, cetto prufissori!”. E Mirabella: “E quante colonne hai contato vi sono?”.

L’impomatato rimase nuovamene sbalordito per la domanda, ma ugualmente dette la risposta sgargiante: “Settandue sugnu”.

E il professore Mirabella di contro: “Figghiu mio, non sei pronto e veloce nelle risposte, avresti dovuto dirmi un numero qualsiasi quando ti ho interrogato la prima volta, perché neanche io le ho mai contate”.

Era un uomo geniale e scrisse dei testi di ottima fattura. Uno in particolare sulla visione economica di Gesù.

Poichè io lo frequentavo settimanalmente e ne avevo studiato lo stile nella scrittura, un giorno avendo letto il discorso di Gronchi, impudentemente, conoscendo i rapporti solidi tra di loro, chiesi: “Professore, mi dica la verità, quel discorso l’ha scritto Lei? Per favore non mi dia una risposta diplomatica!”.

Mirabella rimase perplesso per la mia sfrontatezza e poichè io non mi arrendevo, alla fine cedette e mi confermò che in quel discorso in larga misura aveva “messo le sue mani” e mi pregò e ordinò di mai affermarlo.

Sono passati decenni e mi pare giusto oggi raccontare la verità.

Ma perché quel testo è così straordinario. I punti trattati sono validi oggi ancora di più. Sottoliniamoli: mai la più alta Istituzione della Repubblica in quel momento fu così vicina all’anima popolare.

Iniziava una nuova fase, dove non poteva mancare la solidarietà dei popolo, necessaria alla civiltà stessa. Il popolo avvertiva più consapevolmente che il successo di una politica sana doveva fare assegnamento su di una propria responsabile visione dell’avvenire.

Urgeva la collaborazione di tutte le forze politiche.

Il potenziale del lavoro era inerte ed era insufficientemente utilizzato.

Nessun progresso vero si sarebbe sviluppato all’interno dell’Italia e al suo esterno senza il concorso del mondo del lavoro.

Per edificare uno Stato efficiente, era necessario il riconoscimento corretto dei nuovi diritti e della nuova posizione del lavoro e della trasformazione dei rapporti tra ricchi e poveri e classi sociali.

Vi era bisogno ed era necessario un pieno esercizio della libertà individuale.

E qui per rabbonirmi ed essere sicuro che avrei mantenuto il segreto,mi sussurrò che tale comma lo aveva copiato da un mio studio dal titolo: “I diritti dei cittadini, più che essere difesi devono essere esercitati”,

Naturalmente, non gli credetti affatto, perché sapevo bene che né Gronchi, né lui avevano bisogno di un assistente universitario, ma Lo ringraziai ugualmente fingendo di essere orgoglioso della citazione.

Ma continuiamo l’analisi del testo. Bisognava eliminare la contraddizione tra l’immensa utilità dell’iniziativa privata e l’osservanza dei diritti di giustizia e libertà.

Urgeva eliminare la disoccupazione.

Bisognava mettere mano alla trasformazione dell’ambiente fisico e sociale del Mezzogiorno con l’occupazione stabile e continua.

Ma la parte più significativa e illuminante ed illuminata è quando Gronchi lesse: “Se l’uomo comune vive nel timore di subire l’arbitrio.. e che oggi egli sia oggetto del buono e cattivo volere di coloro che applicano le leggi, nessuna riforma istituzionale sarà feconda”

Sembra di leggere le frasi di padre Gioacchino Ventura, un gigante della storia dei cattolici in politica e di un altro gigante ancora da scoprire e studiare a lungo: Don Luigi Sturzo.