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giovedì, 27 Novembre, 2025
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Rinnovare senza distruggere: il tempo lungo della politica

Lo slogan della Democrazia Cristiana torna attuale dopo il voto: il cambiamento funziona solo quando poggia su identità, radicamento e cultura politica.

Uno slogan antico, ma vivo

Il rinnovamento sì, ma nella continuità.

Era, questo, uno dei tanti e suggestivi slogan elettorali della Dc, e non solo elettorali. Perché campeggiava anche negli infiniti slogan dei congressi democristiani, ricchi di contenuti e di cultura politica ma anche, e soprattutto, di richiami ad effetto e di battute capaci di riassumere un progetto e un modo d’essere in politica.

E proprio il “rinnovamento nella continuità” è uno slogan particolarmente calzante anche e soprattutto dopo il recente voto regionale.

La retorica della rottamazione

Al di là e al di fuori dei programmi rivoluzionari, delle varie e variopinte rottamazioni di stampo renziano, della lotta ai “cacicchi” da parte della segretaria del Pd, della volontà di “pensionare” definitivamente la vecchia e tanto detestata classe dirigente e, in ultimo ma non per ordine di importanza, della voglia di archiviare anche i consensi che i leader del passato detengono ancora. Eccome se li detengono.

È sufficiente fare alcuni nomi per rendersi conto che proprio i vecchi “cacicchi”, per mutuare il linguaggio caro alla dirigenza del Pd, continuano ad avere un consenso non solo importante ma addirittura determinante per far vincere le elezioni al loro partito e al rispettivo schieramento. Comunali, regionali e forse anche nazionali, non fa differenza alcuna.

Da Mastella a De Luca, da Emiliano a Decaro, da Zaia a Zecchino e via discorrendo.

Il consenso non si decreta dall’alto

Insomma, forse è arrivato il momento di prendere atto della realtà.

Il cambiamento, la rottamazione, la rimozione o l’azzeramento anche violento di un segmento della classe dirigente politica ed amministrativa del nostro Paese non può avvenire per decreto o per solenni dichiarazioni dall’alto.

Non bastano i pronunciamenti moralistici, i decreti dei capi partito o i ripetuti impegni a rivoluzionare gli storici assetti di partito – che poi, detto fra di noi, rispondono sempre e solo a un disegno di brutale potere: la sostituzione di una classe dirigente con un’altra classe dirigente, di norma priva di consenso e scarsamente radicata nei mille gangli della società – per rinnovare o ricambiare una classe dirigente.

Gli ingredienti della “buona politica”

E questo per una ragione persin troppo semplice da spiegare.

E cioè: la politica può, forse, recuperare consenso, prestigio, autorevolezza e ruolo solo se non archivia definitivamente ed irreversibilmente – ripeto, solo per un istinto irrefrenabile di potere – alcuni ingredienti fondamentali che giustificano e spiegano la cosiddetta “buona politica”.

E cioè: dal radicamento territoriale alla qualità della classe dirigente locale e nazionale; dal valore della competenza alla visione di società; dalla cultura politica di riferimento alla cultura di governo concretamente declinata.

Una lezione che torna dal Veneto, dalla Campania, dalla Puglia

Ecco perché, e partendo proprio dal recente voto in Veneto, in Campania e in Puglia, l’antico slogan democristiano conserva una bruciante e straordinaria modernità e attualità.

E questo al di là dello scorrere del tempo, del cambiamento delle classi dirigenti, del tramonto dei vecchi partiti e dell’affermazione di nuovi gruppi al comando dei partiti personali e dei rispettivi cartelli elettorali.

Senza un “rinnovamento nella continuità” c’è sempre il concreto rischio di cadere nel burrone.

E cioè nell’antipolitica, nel populismo demagogico e qualunquista e nella lotta senza quartiere alla stessa “buona politica”.