Michele Dantini
Tenutosi in disparte nella prima fase della Rivoluzione francese, nel dicembre 1792 Malesherbes, uomo dei Lumi e illustre magistrato, scrive al presidente della Convenzione, Bertrand Barère, montagnardo intransigente, per offrirsi di difendere Luigi XVI, detenuto in attesa di processo. Questa sua iniziativa comporta grande coraggio. È vero: i giacobini ricordano ancora i titoli di merito del «virtuoso Malesherbes», nobile di orientamento liberale, patrocinatore dei Parlamenti e sostenitore della riforma in senso costituzionale della monarchia, protettore di Diderot e D’Alembert ai tempi dell’Encyclopedie. Tuttavia i precedenti di scrupoloso servitore della Corona, ancorché critico del regime assolutistico, avrebbero dovuto suggerire maggiore prudenza all’anziano uomo di Stato, se questi, per sua stessa ammissione, non «disprezz[asse] ormai la vita» tanto da disinteressarsi di perderla (è ghigliottinato nell’aprile 1794).
Alla data in cui scrive a Barère, Malesherbes ha tratto da tempo le conclusioni sul processo rivoluzionario, il cui estremismo aborre; e sviluppato amare riflessioni sul fallimento dei moderati – monarchici costituzionali, prima, “foglianti” e girondini poi. La disfatta del progetto riformista è per lui imputabile in primo luogo alle ambiguità tenute dal partito dei monarchiens in merito alla religione e alla Chiesa e all’adozione di misure patentemente illiberali che, tra 1789 e 1790, violano una prima volta le norme del rispetto della proprietà e della persona, fanno leva sull’anticlericalismo “militante” parigino (e di poche altre regioni: il Midi, il Sud Ovest) e aprono la strada al Terrore. Le misure antireligiose prese a partire dall’ottobre 1789 costituiscono retrospettivamente, per Malesherbes, non la prova di un superiore cinismo o di scaltrezza da parte monarchico-costituzionale, ma un deprecabile atto di slealtà e un suicidio politico.
Sulla scorta di considerazioni di Burke e Tocqueville, gli storici di orientamento non pregiudizialmente filogiacobino hanno spesso osservato che la Chiesa francese, nell’ultimo periodo dell’Ancien Régime, era ben lungi dal costituire un territorio di privilegio, crapula e licenziosità. Al contrario. Se spesso il demanio ecclesiastico era amministrato con scrupolo pari, se non superiore, al feudo “fisiocratico”, il clero secolare, nelle figure del curato di campagna o del sacerdote dei quartieri meno abbienti delle città, era bene in grado di comprendere le privazioni e le rinunce cui erano costretti i ceti minori, tanto da poterli egregiamente rappresentare. Gli Stati Generali prima e la Convenzione poi offrono ampia esemplificazione di un clero riformista e “liberale” schierato con il Terzo Stato – il cui “manifesto”, è noto, è redatto da un abate, Emmanuel-Joseph Sieyès.
Preparato dall’anticlericalismo settecentesco, che non distingue tra Cristo e Chiesa e riconosce nell’esperienza religiosa solo “fanatismo” o “superstizione”, l’anticristianesimo rivoluzionario è per così dire l’“elefante nella stanza” della Rivoluzione francese. Fatta eccezione per la storiografia in lingua inglese, che si è molto spesa in proposito nei decenni recenti, la memoria delle stragi del clero «refrattario» o di semplici credenti (stragi di marca di volta in volta maratista, giacobina, brissottina o hébertista) compiute a Parigi, Nantes, Marsiglia, Lione e altrove all’insegna del progetto di “decristianizzazione” – progetto che, inviso al solo Robespierre, a partire dal 1792 assume tratti genocidari con le esecuzioni di massa, gli affondamenti di barconi carichi di donne e uomini legati nudi o i primi studi sperimentali sull’efficacia di gas e veleni – non è a mio avviso diffusa così come pure dovrebbe nella coscienza europea moderna, al pari, ad esempio, della memoria della Shoah e del Gulag. Una simile rimozione fa sì che possa sembrare facile, o addirittura ovvio, richiamarsi oggi, da parte di questo o quello schieramento, alla Rivoluzione francese come a un’“origine” senza curarsi di distinguere tra moderazione e Terrore: dimenticando che solo il rifiuto della menzogna e della sopraffazione – o, in termini più concreti, l’immediata avversione per una qualsiasi ideologia della tabula rasa; per l’estremismo dottrinario; per la costruzione razziale o sociologica o sessuale dell’Altro e del “nemico” – può costituire oggi criterio attendibile per la creazione di un’opinione pubblica europea “progressista” e “liberale” (rimando qui, per le implicazioni di lungo periodo del Terrore e le continuità tra estremismo rivoluzionario francese e bolscevismo, a François Furet, Penser la Révolution française, saggio del 1978 purtroppo non tradotto in italiano. Michael Walzer si è di recente soffermato sul problema di una sinistra dottrinaria qui. Riferimento polemico immediato sono talune prese di posizione occidentali a favore di Hamas: le osservazioni di Walzer meritano però di essere considerate in termini più generali e profilate su uno sfondo storico-culturale).
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