Più di uno si sta cimentando nel trovare paragoni ed analogie tra il suicidio politico di Matteo Salvini e le piroette autolesionistiche e folcloristiche di Boris Johnson.

Entrambi sono entrati in crisi proprio nel momento apicale della loro ascesa, più per proprio demerito che per iniziative altrui.

Il primo dopo una crescita inarrestabile di consensi e una straordinaria capacità di imporre la propria agenda politica nei cfr di uno stordito Movimento 5 stelle cui peraltro ha consegnato il più clamoroso degli assist, ha dimenticato che non basta togliere la fiducia al governo (paradossalmente di cui era l’indiscusso dominus) per ottenere le elezioni anticipate senza tener conto delle procedure parlamentari che prevedono il conferimento del mandato al partito di maggioranza relativa e fidandosi ad occhi chiusi che il PD accettasse la sfida del voto senza cedere alla lusinga delle poltrone.

Forse non ricordava il Conte Ugolino e il XXXIII canto dell’Inferno: “più che’l dolor potè ‘l digiuno”.

E questo è un capitolo chiuso che ci riguarda e ci consegna un ribaltone storico da guinness dei primati.

Il secondo, dopo aver atteso pazientemente il lungo e umiliante logorio della collega di partito Theresa May alla quale non è riuscito nessun tentativo tra quelli preparati per realizzare la fase attuativa della Brexit, ne ha preso il posto tessendo la tela della sfiducia e imprimendo una vistosa accelerazione al progetto di uscita del Paese dall’U.E., anche tentando di mandare in ferie il Parlamento fino al 14 ottobre, per la prima volta dal 1948 e con il placet della Regina, forzando la mano per evitare impicci e ostacoli alla prospettiva di exit senza condizioni, il cd. no deal. Anche a lui è andata male: ha iniziato il collega di partito Phillip Lee ad abbandonare le fila dei conservatori per passare al partito liberale, platealmente, durante una seduta della Camera.

Successivamente altri 20 deputati Tory si sono ribellati al capo politico, l’istrionico premier Boris, votando la sfiducia al suo esecutivo e di fatto blindando l’ipotesi di uscita senza condizioni come una irrealizzabile utopia, mandando a carte e quarantotto le velleità del biondo e pirotecnico premier. Ciliegina sulla torta: le dimissioni da deputato e da vice ministro del fratello Jo Johnson, in dissenso con Boris sul no-deal: un fatto che ha del clamoroso poiché avviene in famiglia.

Al vulcanico e irruente Boris non è rimasta altra soluzione che prender atto di questa indignata ribellione (motivata da dissapori personali nel cfr. del loro leader e anche da malcelati ripensamenti rispetto ai vantaggi effettivi di una uscita del Regno Unito dall’U.E.) e invocare elezioni anticipate.

La stessa via d’uscita improvvisamente imboccata da Salvini, con gli esiti imprevedibili che ora conosciamo.

Nel frattempo il laburista Corbyn – nonostante il consiglio del suo predecessore Tony Blair di negoziare una legge in Parlamento che promuova un secondo referendum consultivo popolare sulla Brexit- è propenso ad accettare la sfida delle elezioni e si materializza come incognita pesante sul voto eventuale poiché sembra prevalere nell’opinione pubblica del Paese un orientamento che rimetta in discussione la Brexit e tutto l’armamentario autonomista lungamente tessuto dai conservatori ma finora rimasto impigliato nella rete dei ripensamenti, dei tradimenti, delle soluzioni senza esito tentate.

Per essere il Paese che vanta la più antica Costituzione del mondo si configura nel Regno Unito una situazione incerta, conflittuale, confusa, con risvolti ironici e coreografici degni della migliore rappresentazione teatrale del Circolo Pickwick.

L’Italia avrà i suoi problemi e non li nasconde ma ci sono altri garbugli in Europa.