Articolo già apparso sulle pagine della rivista Il Mulino a firma di Mario Ricciardi
«Sai che c’è un nuovo film di Nanni Moretti? Anzi non è proprio un film, è un documentario. Ho letto che è sul golpe dell’11 settembre del 1973 in Cile». Questa conversazione, o una conversazione simile a questa, ha avuto luogo diverse volte lo scorso fine settimana in occasione della prima proiezione di Santiago, Italia. Sono passati tre anni dall’uscita di Mia madre, l’ultimo lungometraggio di Moretti, quindi non dovremmo sorprenderci se il nuovo lavoro di un regista molto amato dal suo pubblico è accolto come un evento. Pazienza se, come ci ha segnalato l’interlocutore che ci comunicava la buona notizia, non si tratta di un vero e proprio film.
Già, ma sarà poi vero? In fondo Moretti ci ha abituato nel corso degli anni a film che trasgrediscono continuamente le regole del cinema di finzione. In cui al centro c’è spesso un protagonista che, se non è Nanni Moretti, ha la stessa età di Nanni Moretti, e sembra condividerne in parte le esperienze. Film in cui recitano familiari e amici del regista, e che in alcuni casi – come avveniva in Caro Diario o in Aprile – sembrano trarre spunto da episodi noti della sua vita: la nascita di un figlio, la malattia.
Il pubblico affezionato di Moretti è in larga misura composto proprio da persone che appartengono alla sua generazione – il regista è nato nell’agosto del 1953 – o a quella immediatamente seguente. Persone che si ricordano com’era vivere negli anni Settanta, quelli veri, non quelli delle serie televisive in voga da qualche tempo. Alcuni perché hanno all’incirca l’età di Moretti, e quindi frequentavano aule universitarie e riunioni di collettivi studenteschi in cui si potevano incontrare personaggi che ricordano quelli dei primi film del regista. Altri perché hanno fratelli, sorelle o amici che frequentavano quelle aule, e rientrando a casa parlavano come il protagonista di Ecce Bombo. Questo pubblico è diventato adulto guardando i film di Moretti, e oggi invecchia – più o meno bene – aspettando fedelmente il suo prossimo lavoro. Con la speranza di ritrovarsi ancora in un giudizio, in un’immagine, oppure semplicemente in quel modo di guardare il mondo che attribuisce al suo beniamino.
Andiamo a vederlo, dunque, questo documentario. La descrizione è sostanzialmente corretta. Attraverso interviste e immagini di repertorio Santiago, Italia racconta i momenti essenziali della storia di Salvador Allende: la sua elezione alla presidenza della Repubblica del Cile e l’entusiasmo dei sostenitori, che sperano che il nuovo governo possa migliorare in modo sostanziale le condizioni di vita delle larghe fasce della popolazione del Paese sudamericano che si trovano ancora in condizioni di estrema indigenza, prive di diritti, esposte alla malattia, alla fame, allo sfruttamento. Ben presto alla gioia fa seguito l’incertezza, il timore, e infine la paura. Le riforme preoccupano una parte della borghesia, la nazionalizzazione della produzione del rame indigna gli investitori. Negli Stati Uniti l’amministrazione di Richard Nixon segue con crescente inquietudine i tentativi di Allende di trovare una “via cilena” al socialismo. Anche perché il presidente ha rapporti un po’ troppo amichevoli con Fidel Castro e Che Guevara, due spine nel fianco degli Usa.
La situazione precipita, fino al golpe militare. Ascoltiamo ancora una volta le voci dei protagonisti, quella concitata di Allende che si rivolge al popolo attraverso mezzi di comunicazione di fortuna, e quelle imperiose dei militari che ne annunciano la deposizione e gli intimano la resa. Ancora una volta assistiamo alle scene del bombardamento della Moneda, la residenza del presidente, da parte dell’aviazione cilena. Poi gli arresti: i prigionieri che, sotto la minaccia delle armi, sono costretti a stare con le mani dietro la testa e la faccia contro il muro, oppure giacciono ammucchiati sul retro di un camion, e per un attimo vediamo lo stivale di un soldato che li calpesta, come fossero stracci da portare al macero. Riconosciamo il terrore negli sguardi dei reclusi nel campo sportivo mostrati alla stampa internazionale. Inquadrature veloci ci mostrano gli strumenti e i luoghi della tortura. Materiali audio e video che sono familiari a molti di noi.
Ben presto lo spettatore si rende conto che non è stato convocato soltanto per rievocare i crimini di Pinochet e dei suoi sottoposti. Le immagini di repertorio e gli audio si alternano, infatti, a interviste con testimoni e protagonisti di quegli eventi. Studenti, operai, artisti, professionisti raccontano come hanno vissuto quei giorni e quelle settimane. Che cosa hanno visto, e come hanno sofferto. In una delle sequenze più drammatiche, di grande intensità, il regista sceglie di dare la parola anche a uno dei torturatori, oggi recluso in un carcere cileno. Questa è anche l’unica scena in cui per qualche istante rivediamo Moretti. Invecchiato anche lui, ma non addolcito dagli anni. In un’epoca in cui tutti prendono le distanze e si dissociano, dal proprio passato e da sé stessi, cercando di adattarsi a un presente pieno di sfumature, lui non ha perso il senso delle distinzioni morali: «Io non sono imparziale». Detto a un vecchio torturatore che si trova in galera può sembrare una mancanza di pietà, ma è invece un gesto di rispetto: per la verità, per le vittime, per la giustizia, e anche per i colpevoli che sostenevano di agire in difesa della libertà. Alla fine ognuno si prenda le proprie responsabilità, sembra dire Moretti, sia il regista sia gli intervistati. Questa non è finzione, è la realtà, non si può essere arbitri tra i carnefici e le vittime. Bisogna stare con i primi o con le seconde, sapendo che nessuno era perfetto, ma che ciò non impedisce di giudicare.
Giudicati alla fine siamo anche noi. Mano a mano che la proiezione va avanti, e che seguiamo le storie di un gruppo di rifugiati che, grazie al coraggioso lavoro del personale dell’ambasciata italiana a Santiago, riescono a raggiungere il nostro Paese, ci rendiamo conto che forse era questa la storia che Moretti voleva conoscessimo. Quella di un Paese che accoglie persone che scappano dalla violenza e dalla paura offrendo loro rifugio, casa e lavoro. Una storia di solidarietà internazionale di cui sono protagonisti in primo luogo i tanto vituperati partiti: libere associazioni di uomini uniti dalla comunanza di un ideale e dalla passione per il bene comune. Di cui abbiamo pensato di poter fare a meno sostituendoli con dei comitati elettorali.
Un altro tempo, un’altra politica, un’altra Italia, diranno in molti. Certo, ma quegli italiani eravamo noi. Oggi Moretti ci mostra che cosa siamo diventati.