Sbarra (Cisl) invita a fare della negoziazione il fulcro di un sindacalismo moderno e responsabile.

Il leader della Cisl ha rivendicato, ieri a Piazza Sant’Apostoli, il successo ottenuto al tavolo con il governo: non si può negare il sostanziale miglioramento della manovra di bilancio. E l’unità sindacale? “Figurarsi – ha detto Sbarra – se noi siamo contrari! Ma dobbiamo fare chiarezza sugli obiettivi, sui contenuti, e soprattutto sul modello di sindacato che serve a questo Paese”. Di seguito il discorso integrale.

La marcia verso il nuovo va orientata con la bussola della concordia e della corresponsabilità. Noi oggi vogliamo lanciare questa sfida. E diciamo al Governo, alle controparti pubbliche e private e anche a Cgil e Uil che questo è il tempo di esserci per cambiare. Di negoziare crescita, lavoro, contrasto alle disuguaglianze, lotta alla povertà. Ecco perché oggi siamo qui. Per promuovere un metodo e un percorso che ha un traguardo strategico per tutti: un nuovo e moderno Patto per il lavoro, la crescita e la coesione. Un grande Accordo che dia protagonismo sociale alle strategie di ripartenza, che contrasti i divari tenendo dentro chi ha più bisogno, dando nuove opportunità a chi perde il lavoro, o ne rimane ai margini, ai giovani e alle donne, ad anziani e migranti.

Questo è il messaggio che vogliamo dare in questa bella giornata, da questa ‘piazza della responsabilità’. Questo vogliamo fare, consolidando quel dialogo che è alla base dei risultati che abbiamo ottenuto e di quelli che otterremo. Per cambiare l’Italia e farla tornare a crescere, in modo equo, sostenibile e inclusivo. Per un Paese finalmente unito, da Nord a Sud, in cammino verso l’avvenire”, ha ribadito il leader Cisl.

Siamo in tanti a riempire questa bella piazza con i nostri colori,  le nostre voci e le nostre ragioni. Con tutto l’orgoglio per quel che siamo e rappresentiamo. Liberi. Autonomi. Lontani da totem ideologici, da qualsiasi tipo di subalternità politica. Nell’interesse esclusivo di lavoratrici e lavoratori, pensionate e pensionati. Principi, valori, che abbiamo sempre seguito e che guidano la nostra azione anche ora, in un momento che per il Paese è complicato e decisivo. Complicato, perché quella da cui stiamo cercando faticosamente di uscire, è la peggiore crisi dal dopoguerra, perché la pandemia morde ancora e le disuguaglianze continuano a creare ferite profonde. Decisivo, perché molto di ciò che sarà l’Italia nel prossimo futuro dipenderà dalle scelte di queste settimane. Allora c’è bisogno di illuminare la strada. Ma per questo non servono i bagliori di un incendio. Serve invece la luce che nasce dalle idee, dalle proposte concrete, dal coinvolgimento e dal confronto.

Non è il momento in cui ci si può accontentare di essere ‘contro’. Questa piazza di certo non lo è.

Non ci contrapponiamo a Governo e forze politiche di cui, pure, vediamo limiti e interessi di parte che non fanno bene al Paese. Men che meno siamo in contrapposizione rispetto alle piazze di due giorni fa. Convocate con parole d’ordine che non condividiamo. Ma che rispettiamo. Con allarmi eccessivi e una scelta degli strumenti di lotta che riteniamo sbagliati.

Questo passaggio ha messo in evidenza differenti culture e sensibilità. Due modi diversi di intendere l’azione sindacale.

Ma l’orizzonte dei nostri obiettivi deve restare comune. Dobbiamo tornare a guardare al domani insieme. Ma con gli occhi della responsabilità, dell’autonomia dalla politica, del riformismo vero. Noi iniziamo già oggi. Perché questa è una piazza ‘per’. Per incalzare Governo e Parlamento a migliorare ancora una Legge di Bilancio che all’inizio aveva molte più ombre che luci. E che ora si presenta in modo assai diverso. I passi sono stati fatti proprio perché abbiamo costruito e seguito la strada del dialogo, della ricerca pragmatica di punti di sintesi. D’altra parte è così che abbiamo affrontato e risolto questioni decisive nei mesi più duri della pandemia. Lo abbiamo fatto insieme.

Penso al rallentamento e alla ripartenza dell’attività produttiva. Alla sigla dei Protocolli sulla sicurezza, al loro aggiornamento. All’accordo sulle vaccinazioni in azienda. Al Patto per il pubblico impiego e a quello sulla scuola. E ancora: all’Avviso comune contro i licenziamenti. Alla comune assunzione di responsabilità sulla campagna vaccinale. All’accordo di pochi giorni fa sullo smart working. Quando si decide insieme, si decide bene. Sfilarsi dai tavoli di trattativa, invece, porta a decisioni unilaterali e isola il mondo del lavoro da scelte strategiche. Certo, non sono mancati gli stop and go. E quando il Governo ha avuto qualche sbandamento, qualche “amnesia”, non abbiamo fatto sconti.

Come è successo a ottobre con una manovra nata male, insufficiente proprio per la mancanza di coinvolgimento sociale. Per questo ci siamo mobilitati nei luoghi di lavoro e sul territorio. La nostra azione è stata determinata e intransigente. Ma dobbiamo essere sinceri: di fronte a noi non c’è stato un muro. Se fosse stato così avremmo fatto di tutto per tirarlo giù, con ogni mezzo a disposizione. E allora sì, lo sciopero generale sarebbe stato non solo giusto, ma doveroso. Per amor di verità, però, è impossibile dire che sia successo questo.

Il Presidente Draghi, che incontreremo ancora una volta dopodomani a Palazzo Chigi, si è dimostrato capace di ascoltare, si è impegnato ad aprire i Tavoli sui nodi cruciali del fisco e delle pensioni. E ha saputo cambiare e far progredire la Manovra. Non su tutto quello che volevamo. E per questo continueremo a farci sentire. Ma su molto, sì. Con forti elementi espansivi. Per la riforma degli ammortizzatori ci sono 5 miliardi e mezzo, 2 e mezzo in più rispetto a ottobre. Per la sanità si era partiti con 2 miliardi nel ‘22 e siamo arrivati a 6 per i prossimi tre anni. Sulle politiche sociali c’è un incremento da 150 a 850 milioni per la non autosufficienza, si avvia l’Assegno unico con 6 miliardi, si rifinanzia il Reddito di cittadinanza, che va meglio collegato a famiglie con minori e reso più accessibile agli immigrati.

L’Italia che vogliamo passa anche da questo. Dalla valorizzazione delle culture e della fraternità attraverso la solidarietà, l’inclusione nel lavoro, il coinvolgimento sociale. Vogliamo dirlo con più forza oggi, in occasione della giornata internazionale del migrante: non è possibile aspettare 10 anni per riconoscere un sostegno a donne e uomini che vivono, lavorano, creano ricchezza e bellezza del nostro Paese. 

E ancora: nel pubblico impiego ci sono le risorse per sbloccare i rinnovi contrattuali, si aggiornano gli ordinamenti e si finanzia la formazione. Per il caro-bollette ai 2 miliardi iniziali del Fondo di compensazione si sono aggiunti prima altri 800 milioni e poi un ulteriore miliardo.  Sul fisco siamo partiti con 3 miliardi su l’Irpef e 3 sull’Irap. Oggi sono diventati 8, con un rapporto di 7 a 1 a favore di lavoratori e pensionati. L’85% delle risorse è concentrato sotto i 50 mila euro, più del 40% sui redditi fino a 28mila. Si aggiunge 1 miliardo e mezzo per le decontribuzioni dei salari sotto i 35 mila euro, si eleva la no tax area dei pensionati a 8.500 euro e si sbloccano gli adeguamenti pensionistici con un intervento che da solo vale 4,7 miliardi.

Certo: la fumata nera sul contributo di solidarietà è stata una brutta pagina. Un’occasione persa. Ma quel che manca non può pesare più di quel che c’è. Con la logica del ‘benaltrismo’ non si è mai fatta una riforma e non si sono mai migliorate le condizioni dei lavoratori. Mai.

E a proposito di pensioni, è vero: la partita decisiva deve ancora iniziare. Ma intanto nella Legge di Bilancio passano la proroga dell’Ape sociale allargata e Opzione donna, insieme a un Fondo per accompagnare il pensionamento a 62 anni dei lavoratori delle piccole aziende in crisi. Abbiamo bloccato quota 103 nel 2023 e 2024. Restano cose che non vanno, sulle quali fino all’ultimo minuto noi continueremo nella nostra azione di pressing: la scuola e la piena inclusione di giovani e donne, su tutto. Ma se ci si trova su una via che fa compiere passi in avanti, si commette un grave errore ad abbandonarla. Soprattutto se l’alternativa è un sentiero che rischia di portare all’isolamento il sindacato e di trasformare i luoghi di lavoro in trincee. 

Il Paese ha bisogno di coesione e unità. Di una ricostruzione fatta insieme alle parti sociali che ci liberi da ritardi storici. Di approdare ad un nuovo modello di sviluppo, equo e sostenibile, con al centro il lavoro e la persona. Molto si deciderà da gennaio, nei prossimi mesi, quando ci saranno da affrontare i capitoli centrali di una nuova agenda sociale. A cominciare da fisco e pensioni. Al Tavolo sul fisco bisogna confermare e rafforzare l’intervento redistributivo e inserirlo in una riforma complessiva del sistema in nome dell’equità e della progressività. Vuol dire consolidare il sostegno ai redditi bassi, ampliare la no tax area, premiare le imprese che investono su occupazione stabile e formazione, abbattere il cuneo sul lato lavoro. E lotta decisa, senza tregua, all’evasione e all’elusione. Il cancro che corrode il rapporto di fiducia tra Stato e cittadini. Un furto di 100 miliardi – mezzo PNRR – che ogni anno colpisce soprattutto lavoratori dipendenti e pensionati.  

 

Sulle pensioni, c’è un punto di partenza chiaro: guai a pensare di tornare alle rigidità e ai freddi numeri della Legge Fornero, che non tengono conto della vita delle persone, della loro fatica, della differenza dei lavori.  Dei rischi che si corrono quando a 65 o 66 anni si è ancora costretti a stare alla catena di montaggio, su un campo assolato o sopra un ponteggio. No, non è possibile. Va costruita una previdenza dal volto umano, flessibile e inclusiva, specialmente per giovani e donne. Vanno introdotte pensioni di garanzia per ragazze e ragazzi incastrati in percorsi di precarietà. Bisogna sostenere la previdenza complementare ed estendere le quattordicesime. Soprattutto, va riconosciuta a tutti la libertà di uscire prima e in modo dignitoso dal circuito produttivo: 62 anni di età o 41 di contributi devono bastare. Una previdenza riformata deve essere la base di un patto tra generazioni, di un’Alleanza tra genitori e figli che unisca il Paese e sostenga le famiglie. Famiglie che stanno per essere investite dalla più iniqua delle tasse: un’inflazione che si abbatte in modo pesante e lineare sui consumi, danneggiando soprattutto le fasce deboli.

E allora, tra le risposte di sistema, non può che esserci anche una nuova politica dei redditi e delle tariffe. Così come si deve affrontare il tema della crescita dei salari, dell’incremento e della redistribuzione della produttività. Non solo per sacrosanti motivi di equità e giustizia. Ma perché l’uscita dalla crisi passa per la ripartenza del mercato interno. Poi è evidente che la chiave decisiva sono le risorse del PNRR. Bisogna impiegarle bene, senza sprechi. Va avviata una governance partecipata per assicurare qualità di spesa, certezza dei tempi, legalità e rispetto di forti condizionalità occupazionali, soprattutto per giovani e donne.

La traduzione di PNRR deve essere: investimenti e lavoro. Investimenti, sbloccando capitali pubblici e incentivando quelli privati. Per politiche industriali di rilancio dei nostri asset strategici. Per vincere la sfida della transizione digitale, ecologica ed energetica. Per infrastrutture materiali e immateriali che uniscano Nord e Sud, e il Paese all’Europa. Per il riscatto e lo sviluppo del Mezzogiorno. Per la lotta alle disuguaglianze. Per fare il salto di qualità su formazione, competenze e valorizzazione del “capitale umano”.

Troppo poco, davvero troppo poco, si continua a fare per la scuola. Bisogna valorizzare chi fa vivere ogni giorno le nostre comunità educanti: si sblocchi il contratto, si adeguino gli stipendi, si proceda alle stabilizzazioni del personale precario e a nuove assunzioni.

Il lavoro è ‘il valore su cui si basa la coesione della società, merita riconoscimento e tutela’. Lo ha detto il Presidente Mattarella, sottolineando che il successo del PNRR si misurerà da questo. Le giunga anche oggi, da questa piazza, caro Presidente, il nostro saluto, la nostra ammirazione, e il nostro grazie più sincero. Per tutto quello che ha fatto e ancora farà per il bene dell’Italia.

Con il lavoro, con le persone. Solo così ripartiremo. Creando occupazione stabile e dignitosa. Ben tutelata, retribuita, contrattualizzata. Lavoro di qualità, ben formato, compiendo un grande passo sulle politiche attive e l’occupabilità, dando un forte impulso all’apprendistato come canale privilegiato di ingresso. Lavoro dignitoso, che richiede di disboscare la giungla delle false partite Iva. Dei part-time involontari. Dei falsi tirocini e stage, che non sono altro che sfruttamento e lasciano i giovani nella precarietà. Quando invece dovrebbero essere loro, i giovani, i primi protagonisti e beneficiari di un grande piano nazionale per le competenze, per un inserimento lavorativo stabile e qualificato.

Si occupino di questo il Ministro Orlando e la politica! E restino fuori da materie di stretta competenza delle relazioni industriali come il salario minimo e la rappresentanza! Si pensi a rispondere alle delocalizzazioni predatorie. Bene, finalmente, l’emendamento in Manovra per imporre alle imprese il rispetto della responsabilità sociale e della Costituzione. L’Italia non è una riserva di caccia per le multinazionali! Se vuoi andar via per speculare, devi essere obbligato a negoziare con il sindacato e le istituzioni un piano per garantire la piena continuità occupazionale e produttiva. Altrimenti è giusto pagare penali salate! Bisogna affermare una volta per tutte il principio che le persone non sono pedine da sacrificare sull’altare del profitto. Un altare su cui perdono la vita cento lavoratori ogni mese. Nelle fabbriche, nei campi, nei cantieri. Una strage indegna di un Paese civile! Le norme conquistate al tavolo di negoziato e approvate sono primi passi nella direzione giusta. Il cammino deve andare avanti: servono più ispettori e controlli, più coordinamento, maggiore prevenzione e formazione. La sicurezza del lavoro deve essere una priorità assoluta!

Occupazione, sicurezza, sviluppo, coesione: su tutto questo oggi si può davvero voltare pagina. Abbiamo un’occasione storica per portare il Paese dentro una nuova economia sociale più solidale e competitiva. Solidarietà e competitività si incontrano nella Partecipazione. È quello che serve al Paese. Un nuovo modello di rapporti sociali e industriali partecipativo: un’occasione da cogliere sia nella contrattazione, sia attuando l’articolo 46 della Costituzione e assicurando maggiore coinvolgimento dei lavoratori nella vita delle imprese.

Due giorni fa, da piazza del Popolo, ho sentito parole di incoraggiamento a recuperare l’unità sindacale. Figurarsi se noi siamo contrari! Ma dobbiamo fare chiarezza sugli obiettivi, sui contenuti, e soprattutto sul modello di sindacato che serve a questo Paese.

La posizione identitaria e valoriale della Cisl è quella di un sindacato dell’autonomia, del pragmatismo, del riformismo, della partecipazione, della contrattazione. Questo serve. E non un sindacato ideologico, che radicalizza il conflitto su basi generiche e fumose, legato a un antagonismo secco rischia di alimentare l’astensionismo sindacale e di logorare la rappresentanza sociale, lasciandola ostaggio di riti e battaglie di retroguardia.