Il dibattito internazionale suscitato dalla rivelazione da parte dell’intelligence russa di una conversazione riservata di alti ufficiali tedeschi circa l’invio di missili Taurus all’Ucraina ha assunto una piega che rivela il grado di avanzamento del clima di guerra, o di pre-grande guerra, in cui l’Europa rischia di precipitare. È infatti divenuto un’occasione per mettere sotto processo politico non solo la prudenza di un primo ministro, il cancelliere Scholz, volta a tutelare la sicurezza del proprio Paese, ma addirittura decenni di Ostpolitik che tanti benefici ha arrecato all’Europa prima e ancor più dopo lo smantellamento della cortina di ferro.
È un fatto da registrare con preoccupazione perché denso di ripercussioni. Nell’immediato perché mira a oltrepassare la distinzione fra armi che servono per la liberazione dei territori occupati e armi capaci di portare la guerra nel cuore della Russia con le immaginabili conseguenze per l’intera Europa. Più in generale, poi, perché viene usato per ribadire che l’unica via da seguire per la soluzione del conflitto ucraino rimane quella dell’escalation militare.
E allora tutto, anche i progetti di buon senso, come quello di una maggiore integrazione tra gli apparati di difesa nazionali dei Paesi Ue, anche in considerazione del fatto, come ricorda Draghi, che l’Europa non potrà contare sempre sull’ombrello difensivo americano, rischia di venire deformato sotto la lente di un bellicismo europeo che sembra esser rinato dalle ceneri della distruzione a cui aveva condotto l’Europa nel Novecento.
Così la necessità di una autonoma deterrenza che renda l’Unione Europea una potenza politica, economica e militare di rango mondiale, viene soppiantata dalla frenesia del riarmo. E così, a tre mesi dalle prossime elezioni europee, sembra farsi sempre più stridente il contrasto fra l’Europa delle origini, nata per rendere non più possibile la guerra fra popoli europei, e l’enfasi sulla soluzione militare come unica risposta possibile al conflitto ucraino.
Rischiando in questo modo di compiere due grandi errori. Il primo è quello di mettere la diplomazia europea in un angolo, consegnando l’iniziativa diplomatica alla destra, estrema, americana, che, in caso di un non impossibile ritorno di Trump alla Casa Bianca, rafforzato anche dal Super Tuesday di ieri, non avrebbe particolari scrupoli a porre fine alla guerra attraverso un accordo sulle reciproche sfere di influenza fra Stati Uniti e Russia, che umilierebbe ancora una volta un’Europa incapace di uscire dal suo nanismo politico.
Ma l’aria neo-militarista che si respira fra certe élites dell’Europa attuale, in chiave storica rischia di riproporre l’inadeguatezza della politica, che fu tra le cause scatenanti della Prima Guerra Mondiale.
Allora una classe dirigente elitaria e impreparata a gestire politicamente l’ingresso in società delle masse popolari, cercò nella guerra (peraltro solo tardivamente percepita nelle sue reali dimensioni di guerra mondiale) le risposte che invece solo le riforme sociali avrebbero potuto dare. Adesso una classe dirigente, colta di sorpresa dal rapidissimo sviluppo di molte regioni del mondo e dalla contestuale nascita di un mondo multipolare, é tentata di cercare nella guerra una risposta che solo il riconoscimento degli altri protagonisti sulla scena globale (Russia compresa) può dare nel definire un nuovo ordine globale più giusto e inclusivo, con un rapporto più equilibrato fra Occidente e Resto del Mondo.
Va pure osservato come sia sempre più la Chiesa, intesa soprattutto come Gerarchia e diplomazia vaticana, piuttosto che come laici impegnati in politica, a cercare di dare qualche chance alla diplomazia, un’operazione necessaria per superare quel clima di guerra che si sta sempre più impossessando delle narrazioni e degli animi, e che rischia, al di là delle buone intenzioni, di tranciare i residui fili diplomatici che ancora frenano una possibile escalation.
Una preoccupazione che credo necessiti di trovare anche una qualche forma di rappresentazione nel dibattito politico soprattutto al centro, anche per non lasciare il complesso tema della transizione geopolitica ai populisti, ma per arricchire il dibattito politico con argomenti seri che lo aiutino ad allargare i propri orizzonti.