Nel 45°anniversario dell’entrata in vigore dei cd. Decreti delegati nel sistema scolastico italiano (31 maggio 1974) pare utile fare un provvisorio bilancio di questa importante riforma del sistema scolastico italiano
Il Decreto più noto è il 416 poiché introdusse il principio della partecipazione democratica alla vita della scuola, istituendo i cd. organi collegiali che sancirono l’ingresso della componente dei genitori e – nelle superiori- anche di quella degli studenti nei consigli di classe e nei consigli di circolo e di istituto.

Molta acqua è passata sotto i ponti della gestione collegiale della scuola, con luci ed ombre: da un lato c’è chi ha lamentato una eccessiva ingerenza delle famiglie nelle questioni tecnico-didattiche-metodologiche proprie degli insegnanti. Altri hanno evidenziato come questo sistema abbia creato ulteriore burocrazia nella scuola, appesantendo le procedure di gestione con passaggi nuovi e spesso conflittuali, non di rado con interferenze della politica.

La partecipazione allargata alla gestione della scuola ha certamente favorito un processo di crescita e di consapevolezza intorno ai temi educativi e didattici, agli assetti organizzativi ed istituzionali, istituendo accanto alle tradizionali figure monocratiche una serie di organi collegiali a più livelli, composti dalla componente dei docenti, da quella dei genitori e degli alunni, prevendendo sempre una regia e un coordinamento affidato ai dirigenti scolastici come garanti della gestione unitaria della scuola e rappresentanti legali nell’interfaccia sociale e con il territorio.

In questi 45 anni di esperienza dei decreti delegati l’apertura alla componente familiare ha prodotto in alcuni casi vere e proprie eccellenze, in altri attriti e scontri, invasioni di campo nell’area di pertinenza delle figure professionali della scuola a riprova della descrizione di questo processo caratterizzato da chiaro-scuri e alternanze positive e conflittuali rappresentata dal pedagogista Luciano Corradini come una sorta di “difficile convivenza”.
Si può tuttavia affermare che questo continuo divenire di esperienze di confronto e collaborazione ha prodotto esiti positivi, di maturazione, inclusione, condivisione di responsabilità, stimolando la dimensione di prossimità e favorendo un’idea di comunità educante allargata.

In questi ultimi tempi, accanto a questo percorso interno alla scuola e da esso favorito per contiguità e frequentazione più intensa, si è assistito ad un lento e graduale avvicinamento confidenziale tra i docenti e le famiglie.
Un tempo i genitori si presentavano – per usare una metafora iconicamente efficace – con il cappello in mano al cospetto degli insegnanti, con un atteggiamento a volte persino reverenziale.

Non era messa in discussione l’autorità del maestro, poiché si aveva la consapevolezza che l’affidamento del proprio figlio alla scuola comportava una sorta di sacro rispetto verso l’insegnante: tutti conosciamo la metafora o storiella che dir si voglia della sgridata presa a scuola e raddoppiata a casa dai genitori.
La generazione cresciuta secondo questi principi di riconoscimento di autorità e autorevolezza del docente non ha avuto nella vita motivo di dolersi di rampogne severe, brutti voti, richiami a comportamenti più ortodossi e rispettosi. Anzi, chi è stato educato da quella scuola in genere ha ben compreso che la vita comporta impegno e sacrificio, che nulla è regalato ma va conquistato a fatica, che il rispetto che si deve ad un adulto incaricato di un compito così alto e delicato come la formazione educativa di un giovane in crescita si riverbera a tutti gli ambiti sociali e si traduce nel rispetto che si pretende dagli altri quando si fa il proprio dovere.

Purtroppo molto è cambiato rispetto a questo atteggiamento di devota considerazione della scuola, del maestro o professore e del suo compito formativo.
Una società che cresce e accampa nuove e più avanzate rivendicazioni, in termini di autorealizzazione personale e collettiva, moltiplica in genere più il senso del diritto che quello del dovere.

Ci sono stati, con frequenza crescente in termini di quantità e di tono ultimativo, episodi di ribellione, offesa personale, aggressione fino alla vera e propria violenza fisica ai danni dei docenti sia in classe per mano di ragazzi sempre più intolleranti e ribelli, che da parte dei loro genitori iperprotettivi : una sorta di avvocati d’ufficio che lamentano disparità di trattamento a fronte di oggettivi, scadenti esiti scolatici, contestano i voti e le pagelle, fanno ricorso al TAR per una bocciatura meritata, minacciano querele, azioni legali verso gli insegnanti che hanno cercato di imporre un ordinato e leale svolgimento di un compito in classe, evitando copiature, interferenze attraverso gli smartphone, violazioni del codice etico di ogni comunità.

Poi ci sono stati episodi di aggressione fisica vera e propria: dallo sfottò verbale alle sedie rovesciate in testa, ai docenti presi a calci e pugni e mandati all’ospedale.
Ricordiamo tutti il caso di quella professoressa sfregiata in volto da un alunno che aveva avuto il coraggio di perdonare e di trarre spunto da ciò che aveva subito per impartire una lezione di educazione civica e sentimentale.

Ricordiamo il fatto di quel dirigente scolastico dileggiato con frasi offensive sui muri del proprio istituto che non le aveva fatte cancellare ma le aveva utilizzate per dimostrare ai ragazzi che è facile ferire la dignità di una persona, ben più difficile ma fondamentale rendersi conto dell’errore e utilizzarlo in chiave educativa.
La scuola sta diventando terreno fertile per questi casi di violenza fisica, verbale e psicologica nei confronti dei docenti da parte degli alunni, specie con comportamenti agìti attraverso le nuove tecnologie, e dai loro genitori che compiono il più madornale degli errori possibili quando si ergono a paladini e difensori “a prescindere” delle bravate dei propri figli senza minimamente comprendere quanta difficoltà comporti essere insegnanti oggi.

Facendo in questo modo tali genitori favoriscono senza forse rendersene conto la ribellione dei propri figli verso il proprio ruolo familiare.
Decenni di buonismo e perdonismo, di pedagogia della facilitazione, di rapporti confidenziali (oggi in molti – genitori o alunni – si permettono il tu con l’insegnante) di pensiero mite unilaterale per affrontare una pedagogia sociale basata sulla rivendicazione, sul senso del diritto senza limiti, sulla violenza dilagante in ogni contesto di vita hanno favorito certi atteggiamenti inqualificabili da parte di famiglie malate di sindrome da risarcimento, che criminalizzano la funzione educativa della scuola e vorrebbero la promozione facile e dei docenti proni e supini al volere dei propri immaturi bamboccioni.

Se la scuola – aiutata da una consapevolezza sociale sempre più diffusa e matura del suo ruolo fondamentale di formazione e indirizzo, di acculturazione ma anche di proposta di stili di vita improntati al rispetto – se questa scuola non riuscisse più a portare avanti questo compito che nessun altro contesto potrebbe supplire, assisteremmo ad una progressiva deregulation anche nei comportamenti al di fuori dell’ambito scolastico in senso stretto.
Bullismo, cyberbullismo, atteggiamenti di derisione e spregio verso i più deboli, ribellione sociale, diffusione dell’alcool e della droga , giochi violenti ed estremi dove viene messa in gioco la stessa vita sono fenomeni che stanno esponenzialmente crescendo e diffondendosi tra i giovani.

Troppo tardi per quelle famiglie che li hanno difesi e protetti ad oltranza, anche contro la scuola, recriminare attribuendo la colpa di tutto ciò a qualcuno di indefinito, quando servirebbe invece un preventivo e severo esame di coscienza sugli stili di vita appresi in famiglia.