Il mondo cambia rapidamente. Siamo di fronte a cose difficili, che richiedono la verità di una missione alta, senza inganni, totalmente depurata dal più suadente e velenoso dei linguaggi, quello della demagogia. Draghi ha fatto ricorso a una locuzione spesso ripetuta, ma oggi particolarmente valida o quanto meno attraente: la crisi può anche essere un’opportunità, anzi lo deve essere.
In tempi così carichi di minacce di varia natura, può vivere un Paese senza grandi progetti, senza una visione che restituisca fiducia nel futuro individuale e collettivo? Non è una domanda retorica, né un quesito al quale si possa rispondere con sufficienza. Questi non sono tempi per furbi. Si pone dunque un interrogativo fondamentale: cos’è il potere? Un fine o un mezzo? Si governa solamente per continuità o per prendere quelle decisioni, popolari o meno, che corrispondono all’interesse della nazione?
Parliamo delle decisioni che sono ispirate comunque da una visione, programmatica e valoriale, che nasce dal profondo di un’analisi della società e dallo sforzo di interpretare i cambiamenti che le circostanze storiche determinano nel lavoro e nella vita dei cittadini. Cambiamenti che dovrebbero produrre qualcosa anche nel pensiero e nel discorso pubblico. In quelle che una volta erano le “agenzie sociali” del Paese. In realtà il mondo cambia, con una velocità impressionante. Il primo grande mutamento è stato determinato dalla rivoluzione tecnologica che ha stravolto i modi di produrre, conoscere, comunicare, stabilire contatti e relazioni tra le persone. Il secondo è stato la diffusione globale della paura attraverso la sfida del terrorismo integralista, a cominciare dal grande choc delle Torri Gemelle di New York (di cui sabato prossimo ricorre il ventesimo anniversario) e dalle conseguenze del ritiro catastrofico dall’Afghanistan.
Infine la pandemia che ha gelato le economie globali, prodotto centinaia di migliaia di morti, stracciato un numero infinito di contratti di lavoro e sbattuto la vita di milioni di famiglie nella più pericolosa delle condizioni umane: l’incertezza. Di fronte a questo rivolgimento del mondo la politica resta aggrappata disperatamente a un bisogno di sopravvivenza, quasi come l’equipaggio della “Zattera della Medusa” di Gericault. La storia del naufragio rappresentato dal grande pittore francese è interessante e può avere anche un valore simbolico. Nasce, in primo luogo, dalla incapacità del comandante di capire la giusta rotta e dalla sua inesperienza nella conduzione di una nave di quella portata (come spiegava, con parole simili, anche Kierkegaard). Da quella catastrofe, della ciurma rappresentata nel quadro, tornarono solo in dieci.
È il Novecento, grande e tragico, la zattera della ciurma della politica italiana. Aggrappati a quel mondo, che vorrebbero ritrovare, i sopravvissuti immaginano un porto sicuro in cui tutto sia ancora com’era prima. E’ la “calma apparente” delle forze politiche di cui ha parlato Sabino Cassese sul Corriere della Sera di qualche giorno fa. Invece lo sforzo dovrebbe essere quello di capire come il proprio sistema di valori, quale che sia, possa guidare i processi sociali. Non si lavorerà più come prima, non saranno più come prima le città, così il nostro modo di consumare e quindi di produrre. Bisognerà fronteggiare una società che invecchia rapidamente e non genera, almeno in Occidente, la vita necessaria a chiudere il cerchio dell’economia sociale. Bisognerà rendersi conto che l’ambiente non è una bella parola per condire i discorsi (o i paragrafi del PNRR) ma la sfida più urgente e necessaria del nostro tempo e forse l’unica valvola possibile di una ripresa duratura (e non effimera) della crescita economica.
Così si comprende meglio il senso delle parole di Mario Draghi: usare la crisi come un’opportunità. Non per aggrapparsi al vecchio mondo, ma per governare l’alba del nuovo. Usare il debito “buono”, oltre l’emergenza, non per assistenzialismo ma per creare lavoro, ricchezza, equità sociale. Per fare della formazione permanente la principale esperienza di arricchimento del capitale umano, per trovare nuove forme di garanzia della sicurezza sociale, per spostare sulle nuove generazioni non il peso del debito ma la possibilità di accesso al lavoro e a una certa stabilità dell’esistenza. Cose difficili, che richiedono la verità di una missione alta, senza inganni, totalmente depurata dal più suadente e velenoso dei linguaggi, quello della demagogia. La stabilità costringe la politica a parlare di contenuti e i governi a fare le riforme promesse. La precarietà di maggioranze e coalizioni sposta invece l’attenzione sulla durata, sulla sopravvivenza degli esecutivi e non sulla qualità e sulla coerenza dell’agire politico. Il risultato finale di questo confronto è la scelta – in definitiva – tra passato e futuro.