Una delle incognite maggiori che reca con sé l’avvio del nuovo anno è il futuro della Siria, paese estremamente importante negli equilibri così precari del Medio Oriente. Il repentino crollo del cinquantennale regime degli Assad ha lasciato sorpresi un po’ tutti gli osservatori, e pure alcuni attori sul campo, come ad esempio i russi. Ma in realtà la caduta non era inverosimile, dal momento in cui Israele aveva deciso di attaccare frontalmente il cosiddetto “Asse della Resistenza” finanziato e armato dall’Iran: Hezbollah colpita duramente non poteva più aiutare Assad; Damasco infiltrata direttamente da raid dell’aviazione capaci di colpire il consolato della Repubblica Islamica dimostrava l’inconsistenza delle proprie difese nel momento in cui veniva a mancare la protezione aerea russa, dovendosi Mosca concentrare sul conflitto ucraino. Assad si è ritrovato solo ed è inevitabilmente caduto.
Contemporaneamente la Turchia ha visto l’opportunità che cercava da tempo per rafforzare la propria presenza nell’area (e per proseguire la propria guerra al movimento per il Kurdistan libero) utilizzando e aiutando il gruppo fondamentalista sunnita fondato da al-Jolani, Hayat Tahrir al-Sham (HTS) sorto dopo la rottura con al-Qaeda e la conseguente fine dell’esperienza radicale di al-Nusra che dallo stesso al-Jolani era stata fondata dopo aver abbandonato lo Stato Islamico (IS). Fin qui gli eventi, e i loro antefatti. Ma ora che cosa potrà accadere?
Al-Jolani, che adesso torna a farsi chiamare col suo vero nome Ahmed al-Sharaa, non ha certo le migliori credenziali per garantire ciò che va dicendo dal giorno del suo trionfale ingresso a Damasco, ovvero che tutti i diritti dei singoli e dei gruppi nonché delle varie confessioni religiose presenti nel paese saranno rispettati e tutelati, e che in un tempo ragionevolmente non troppo lungo si arriverà a libere elezioni, ma al contempo sta rivelando insospettate doti di realismo, forse anche nella consapevolezza della instabilità del mosaico siriano. Per dire: mentre è alquanto plausibile una pesante vendetta nei confronti dei sostenitori della feroce dittatura appena sconfitta, e dunque degli sciiti alawiti (del resto oltre alle centinaia di migliaia di morti dovuti alla guerra civile vi sono le decine di migliaia di prigionieri torturati per anni nelle terribili carceri ora svelate a tutti), è più complessa la gestione delle numerosa comunità curda, che occupa larga parte del territorio orientale del paese ma che al tempo stesso resta il principale nemico dell’alleato turco.
I curdi, supportati dagli americani, come noto sono stati decisivi, la scorsa decade, nella sconfitta di Daesh e di questo dovrebbero essere ringraziati dall’occidente. E invece ora, con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, rischiano d’essere abbandonati alle grinfie di Ankara: gli Stati Uniti perseguiranno un qual certo disimpegno (si vedrà poi di quale entità) dalla regione e ne delegheranno il controllo all’alleato NATO, pur sapendo quanto Erdogan sia ambiguo e spregiudicato. Una Turchia in grado di influenzare significativamente il nuovo assetto politico siriano significa – e non è poco, per Washington ma pure per Gerusalemme – di fatto la fine del predominio sciita in quella parte del Levante, forse la fine dello stesso Fronte della Resistenza antisionista, di certo l’interruzione della “Mezzaluna sciita” fra l’oriente iracheno e l’occidente siriano-libanese.
Si vedrà in un prossimo futuro se questo mutamento comporterà un effettivo predominio sunnita guidato da una rinnovata ambizione ottomana divenendo un problema per Israele e forse ancor più per l’Arabia Saudita. Oggi però la questione immediata per il nuovo governo siriano è la stabilizzazione del paese evitando lo scoppio di un nuovo scontro fratricida, anche per tentare il rilancio di una economia allo stremo. Gli equilibri di politica estera verranno un po’ più avanti. Per ora se ne occupa Ankara (e dunque le basi militari russe sul Mediterraneo non verranno smantellate, ennesimo gioco di prestigio del Sultano di Istanbul).