Stati Uniti d’Europa, Igino Giordani ne parlava già nel 1925.

[…] Giordani, già dagli anni Venti, aveva condiviso il sogno europeistico di Sturzo. “Vogliamo cooperare alla europeizzazione della cultura, a superare cioè, di pari passo che le supera la scienza, le barriere di un egoismo, non nazionale, ma nazionalistico, tomento d’odio nei popoli, pericolo grave per la cattolicità (universalità) stessa. Noi tendiamo agli Stati Uniti d’Europa con moderatore il Papa. Prepariamone la realizzazione creando le interferenze culturali, che precedano o almeno seguano le interdipendenze economiche e sociali” [I. Giordani-G. Cenci, Preambolo, in “Parte Guelfa. Rivista di pensiero cristiano”, anno I, numero 1, Giugno 1925, p. 1]. Rifacendosi a Benedetto XV, ma anche al ruolo di arbitrato internazionale svolto da Leone XIII per volere di Bismarck, Giordani auspicava un Papa come moderatore, nel contesto internazionale, forte di quel suo primato morale” che svolgeva sin dal primo millennio.

Come tanti altri cattolici democratici, Giordani era convinto che “il prestigio della Chiesa” sarebbe cresciuto “con lo sviluppo delle democrazie”, soprattutto se fosse stata capace di opporsi a quell’Europa “nazionalistica e plutocratica”. Ma occorreva fare in fretta e sostenere quel crescente bisogno di unità, come pure evitare di disperdere l’eredità cristiana del vecchio continente. Che la costruzione degli Stati Uniti d’Europa dovesse realizzarsi al più presto era un’esigenza che scaturiva pure da una puntuale analisi sociale ed economica. Per dare un senso a tutto ciò, bisogna mirare a una “risultante politica, in una forma stabile, che, secondo noi, non può essere se non la Federazione degli Stati europei”. L’Europa “si salverà dal fallimento economico, dalla minaccia di nuove guerre” solo realizzando una “superiore forma organica di coordinamento e di integrazione, che non sciupi nell’accentramento mostruoso le iniziative, le risorse, le articolazioni”. Per i cattolici, ciò costituiva quasi un approdo naturale. Corrispondente da Lucerna nel 1947 al Raduno svizzero dei partiti cristiani, Giordani sosteneva: “A Lucerna s’è parlato dell’Europa, da europei. Era ora. Ci siamo lasciati uccidere e depredare per le nostre divisioni, dimentichi oltre tutto – come dicevano i Padri della Chiesa – che le divisioni sono colpa”. Si era perso fin troppo tempo per comprendere un fatto così evidente. 

Giordani non dimenticava che gli “europei intendono il significato di alcuni vocaboli supernazionali, come quelli di comunismo e socialismo” in modo non chiaro. Lo stesso valeva per il liberalismo ridotto a “un’aristocrazia appesantita dallo strascico di un laicismo anacronistico”. Il cristianesimo, invece, era “una forza religiosa e non un lievito politico”, con in più un senso di universalità, in alcuni momenti “fatto a pezzi dal protestantesimo”, ma sempre vivo. Per questo, Giordani auspicava, nell’Anno Santo del 1950, il primo congresso della democrazia cristiana europea, se non pure mondiale”. Giordani, poi, riteneva che, in futuro, in Europa si sarebbero sviluppate le forze autenticamente popolari e “le due correnti principali saranno la democristiana e la socialista”. Queste differenti visioni determineranno il futuro dell’Unione europea. 

Questa deve essere effettiva e non solo economica, di banche e di capitali. Si capisce perciò perché il fallimento della CED divenne per lo stesso De Gasperi una vera e propria “spina”. Occorreva capire che, per costruire l’Europa, bisognava superare gli egoismi nazionalistici, anche di natura economica. Gli Stati più ricchi partono da un presupposto economico privo di senso che li porta a isolarsi sempre più. Ignorano un principio elementare dell’economia cristiana: “Si sta nel medesimo battello, ricchi e poveri, e, se si affonda, s’affonda tutti. La ricchezza stessa si conserva nella solidarietà: si disperde nella divisione. Due guerre dovrebbero aver illuminato anche i più gretti”: Purtroppo così non era stato e lo stiamo sperimentando anche oggi.

Le convinzioni di Giordani sembrano echeggiare quelle del futuro Cardinale Pavan che vedeva l’Europa prostrata e in “estrema umiliazione (…) straziata in se stessa (…) ridotta a semplice oggetto di patteggiamenti combinati nella sua assenza”. Malgrado tutto ciò, sembra quasi che l’Europa rientrasse quasi in un piano provvidenziale. Questa affermazione era fatta da chi aveva “partecipato personalmente a numerosi incontri” preparatori e che aveva maturato la sensazione che la strada maestra fosse stata tracciata.

R. Pezzimenti, L’Europa dei Padri Fondatori: tradita o dimenticata, in L’Europa che vogliamo, “Opinioni”, anno IX,  n. 19, gennaio-marzo 2019, pp.16-17.