Un popolo innumere si raccoglie oggi, tra l’ondeggiare di mille bandiere, intorno al monumento a Giuseppe Mazzini, da tanti anni preparato, da tanti anni velato; e, in alto, fiammeggia il sole della nostra ardente estate, che già nel ‘49 riarse la gola dei combattenti di Roma, dalle mura offerenti l’anima a Dio, e una immortale speranza all’Italia, auspicata una e libera.
Nel grande cuore di Roma pulsava allora il cuore di questo Uomo, rimasto ancora per alcuni lati della sua vita e del suo pensiero, complesso e difficile a comprendersi appieno; ancor giovine (aveva appena 44 anni), ma già macro e provato e martellato al fuoco vivo di amare prove e di mai vacillata fede, più che un uomo era un simbolo ed insieme un vivente insegnamento: l’adeguamento dei propri atti alla Legge, voluta e votata da rappresentanti legittimi del Popolo in una afflato religioso vago, ma facente presa in quella atmosfera romantica nella quale il prestigioso motto “Dio e popolo“ pareva naturale presidio alla vita e all’attività della Repubblica Romana.
Era nato da famiglia austeramente pia, nella gelida deviazione giansenistica, che ispirò a lui la semplicità della vita e l’imperativo risonante nella sua parola come un “dictatus” morale, mentre l’amor di Patria divampava nel suo cuore giovinetto, da quando vide la mamma sua, nel 1821, dare l’obolo per gli esuli partenti da Genova.
Già nel 1820, alla Università di Genova, era stato ammonito ed arrestato. Ma egli tacitamente osserva, giudica, costruisce: ha bisogno di uno schema, e questo sarà la Repubblica. L’amore per l’Italia, l’odio allo straniero, specie austriaco, la sfiducia nei governi dei sette Stati italiani, lo spontaneo risalire, nei sogni e nello studio, alla epoca d’oro dell’Italia romana e dell’Italia medievale, lo resero repubblicano.
Una Repubblica, la sua, che dovrà essere fiera e mistica, unitaria contro disegni di possibili federazioni di Stati italiani, impregnata di libertà, tutelata dall’autorità, strumento unico per realizzare il grande sogno di una Italia unita.
È, la sua, una idea-forza, che spiega il perché egli mise paura a tutte le polizie e ai governi d’Europa, tanto da vedere la sua mano, anche dove non c’era la logica possibilità che egli fosse presente.
Carbonaro dapprima, poi tonante contro le sètte, fondatore della “Giovine Italia” e poi della “Giovine Europa”, che egli considerò come consociazione di forze giovani, necessariamente celate e tenute vive e concordi dalla potenza di una realtà desolata e di una speranza illuminata.
Egli realtà e speranza, riassunte nel motto “Ora e Sempre”, alimentava con quelle sue letterine brevi, su carta azzurra, vergate con piccoli caratteri ben marcati, perentorie come ordini di assalto, liquidatrici come sentenze, incitatrici come espressione di una potenza profetica.
La sua volontà non piega mai, fino alla morte, con un entusiasmo che non si spegne mai, con un calore di persuasione travolgente anche le più ragionevoli opposizioni, con un finalismo illuminato e una religiosità tutta sua particolare, pensata e costruita giorno per giorno, sempre più errante e lontana dalla sua prima fede Cattolica, e pur piena di un suo personalissimo misticismo, da pochissimi seguaci capito, da non tutti i seguaci rispettato.
Con questo animo, anche i periodi brevi della prigionia, come le lunghe attese in esilio, agiscono su di lui come un temprarsi eroico della sua resistenza e del suo dinamismo. Esule per il mondo, è l’Italia martoriata, perseguitata, mai spenta, mai sepolta, che parla per bocca di questo randagio, che non è vero che non abbia riso mai. Ha conosciuto il sorriso dell’amicizia e l’ansia dell’amore, la dedizione ragionata dell’amicizia, il sacrificio infiammato dell’amore.
Per cento travestimenti sfuggente a tutti gli agguati, in Toscana, in Svizzera, in Inghilterra, in Francia, nei rapidi misteriosi ritorni a Genova, sarà in nessun posto e dovunque.
Falliti i moti del ‘31, fallito il tentativo della Savoia, il ‘48 lo vedrà equilibratissimo nel valutare l’apporto del Piemonte e di fronte all’irruenza intransigente del Cattaneo, e lo vedrà nella conclusione drammatica della guerra di Lombardia nel battaglione Medici, severo nell’abito nero con al fianco la piccola perfetta sua carabina.
Ha scritto a Carlo Alberto, ha scritto a Pio IX con un linguaggio duro e autoritario certo e rispettoso per i destinatari, e solo giustificato dal suo infuocato, disperato amore per l’Italia.
Poi il telegramma “Roma-Repubblica-venite”, mandatogli da Garibaldi che era suo fin dall’ingresso nella “Giovine Italia“ a Taganrog, e poi non più suo, per reciproche intolleranze e impazienze. Roma! Dio e Popolo! La costituzione, la difesa disperata, gli eroismi sul campo, la tutela della legge contro Garibaldi, contro Zambianchi, contro gli “Ammazzarelli“ marchegiani, la capitolazione solenne degna dell’antica Roma…
E poi via, per tutte le strade di Europa, braccato, compreso da pochi amici, solo clamante unità e libertà. E tentativi pazzeschi come il moto di Milano del ‘53 ingemmato del sangue eroico di Sciesa, e le congiure rivoluzionarie del ‘54 e del ‘55 (o candidi martiri di Belfiore, o Pier Fortunato Calvi!), e il tentativo insurrezionale di Genova e la condanna a morte!
È con nessuno e con tutti, sempre più lodato come organizzatore, e sempre più vivo nella speranza degli italiani e nel terrore che incute ai potenti. Crede ancora nella Repubblica quando tutta l’Italia è nella scia garibaldina e il programma unitario è: “Italia e Vittorio Emanuele”, battezzato nel sangue a Calatafimi, e coronato di vittoria al Volturno, quando Garibaldi per l’unità della Patria dona un regno al “sopraggiunto Re”.
Negli ultimi anni di sua vita, la piccola Italia dei compromessi talora necessari urta contro il suo ideale assoluto: la marea montante della Internazionale Bakuniana urta contro la diga incrollabile della sua fede, quando fulmina, Egli, l’amico degli operai, i petrolieri della “Comune” bollandoli come nemici di Dio, della famiglia, della Patria, dell’umanità.
L’Italia si è formata ormai per il suo spirito, ma fuori e contro i suoi disegni. Esule in patria, con nel cuore l’amore mai placato per la sua Mamma terrena, viva nel suo ricordo fino negli ultimi anni, come lo fu in vita per le di Lei lettere sostenitrici nell’esilio, con nel cuore l’amore per l’Italia che aveva sognato diversa da come la vide dopo il ‘70, compì il suo sacrificio supremo a Pisa il 10 marzo 1872.
Morì in una modesta camera di amico, ricoverato sotto falso nome inglese…ma sul letto aveva la coperta da campo di Alberto Mario, usata nella campagna del ‘60!
Noi crediamo che al morente più che la sua travagliatissima vita politica sarà apparsa consolatrice la visione serena dell’Italia dell’avvenire, di quell’Italia che oggi, oltre il dolore, la mortificazione, la desolazione, la morte sta virilmente risorgendo.
Placate le antiche polemiche, chiarite le mutue incomprensioni, dimenticate le reciproche amarezze, il popolo d’Italia può portare sull’Aventino, con cuore puro, tutti i lauri dell’antico e nuovo suo Risorgimento.
Fonte: Il Popolo, Data: 2 giugno 1949, Titolo: Giuseppe Mazzini, Autore: Mario Cingolani
N.B. L’episodio concernente la realizzazione del monumento a Mazzini è bene esaminato, nel quadro dei rapporti generali tra Santa Sede e Dc, nell’ultimo libro di Giuseppe Catananti (L’Italia vaticana, Edizioni San Paolo, 2025)