Toni Bisaglia fu una figura politica incompiuta. Morì quando era ancora giovane e aveva appena imboccato il percorso di una sorta di rinnovamento di se stesso, nel bel mezzo di un tentativo più corale di ridisegnare la Dc e attrezzarla in vista di quei tempi nuovi che si annunciavano imminenti, promettenti e insidiosi. Inoltre egli era piuttosto restio a raccontarsi, tantomeno a celebrarsi. Contava sul fatto che a parlare in suo conto sarebbero state le sue opere, e tanto più il tempo (pur poco, e affrettato) che sentiva di avere ancora davanti a sé. Tempo che quella caduta da una barca nel mare di Portofino gli portò via tutto a un tratto.
Quella sua morte così accidentale finì per essere a quel punto il tratto più conosciuto di lui, alimentando un mistero che non aveva ragioni e oscurando una biografia che non era ancora compiuta. Alle sue spalle, però, c’era già una storia politica di rilievo, come esponente e poi come leader di quel “Veneto bianco” che rimase a lungo il bacino di consenso più ampio del nostro insediamento popolare. E davanti a lui, in un futuro che non ebbe modo di vedere, c’erano quei legami solidi e promettenti che aveva annodato con De Mita, segretario del partito; con Cossiga, allora presidente del Senato e di lì a poco capo dello Stato; e in modi forse un tantino meno intimi e meno complici, con Forlani. La terza generazione, come la si etichettò. Egli si trovava insomma ben dentro la vita democristiana di quegli anni, ignaro che quella vita sarebbe stata assai più breve, e soprattutto assai più tormentata, di come all’epoca si immaginava.
Avesse avuto più tempo davanti a sé avrebbe tagliato i traguardi più apicali cui sembrava destinato. Ma in realtà lui stesso aveva una sorta di presentimento di quel che sarebbe potuto accadere. Non alla sua persona, affatto. Ma semmai al suo mondo, al suo partito, alla sua terra politica. Come avesse intuito per tempo lo sfacelo che sarebbe capitato dieci anni dopo. In una parola, aveva ben chiara la fragilità del potere. Del suo, prima di tutto.
Per molti anni Bisaglia fu a lungo un outsider. Era figlio di un ferroviere. La sua famiglia era povera e marginale. E la sua città era a suo modo marginale anch’essa. Aveva mosso i suoi primi passi politici nella provincia di Rovigo, allora la meno democristiana del Veneto. Per giunta era stato guardato con sospetto dai notabili che governavano il partito in quegli anni. Troppo giovane, troppo dinamico, troppo ambizioso, forse troppo disinvolto. Privo di quelle ambiguità e di quelle ipocrisie un po’ untuose che allora andavano per la maggiore, specie da quelle parti.
Come tutti in quegli anni, cominciò con le associazioni cattoliche e con il Movimento giovanile del partito. Ricordava sempre che alla morte di De Gasperi s’era precipitato con altri ragazzi a Sella di Valsugana e aveva assistito all’arrivo di Andreotti, allora giovane sottosegretario. Accolto dalla moglie dello statista trentino con un’espressione che lo aveva colpito: “Eppure, le voleva bene”. Dove quell’”eppure” poteva essere letto in molti modi (e Bisaglia indulgeva da parte sua al modo più malizioso, o almeno più severo).
Arrivare in Parlamento, muovendo da quella provincia più povera (anche di voti) e quasi periferica, non fu affatto impresa facile. A rendergliela un pochino meno proibitiva fu il legame intessuto con Mariano Rumor, gran capo dei dorotei e quasi sul punto di diventare segretario del partito e poi presidente del consiglio. Quel legame lo accompagnò e lo aiutò per molti anni. E quando poi si ruppe e le loro sorti si divisero, non senza qualche asprezza, Bisaglia ne ricavò una sorta di imbarazzo. Poiché lui si sentiva più moderno, più dinamico, più adatto ai tempi nuovi rispetto al suo capo storico. Avvertendo però il peso di una frattura che non si rimarginò mai del tutto.
Arrivato a Roma, si dedicò all’organizzazione del partito. Il tema era quasi un suo pallino, in quei primi anni importanti. Era convinto che i modelli politici adottati fin lì avessero fatto il loro tempo. Sia quelli del notabilitato degasperiano. Sia anche quelli, apparentemente più moderni, introdotti poi dal dinamismo di Fanfani e dei “giovani” di Iniziativa democratica, la nuova corrente di maggioranza. La sua idea era che la Dc dovesse a quel punto cercare nuove sintesi tra i “valori” e gli “interessi”. E cioè le due polarità -non più opposte l’una all’altra- intorno a cui si snodava il rapporto con l’elettorato. Quelle due polarità incarnavano nella sua visione il legame tra passato e futuro.
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