Articolo già apparso sulle pagine del sito internet Mente Politica a firma di Paolo Pombeni 

Il tema del seguito da dare a quanto richiesto da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna in base a quanto previsto dalla riforma costituzionale che ha introdotto le cosiddette autonomie differenziate è stato giustamente e doverosamente ripreso dal nuovo governo Conte. Nel precedente esecutivo esso era stato messo in capo ad una ministra della Lega, Erika Stefani, vicentina, che in una prima fase aveva operato in maniera accurata, per perdersi poi nel vortice delle polemiche interne alla maggioranza gialloverde anche per il crescere delle pretese dei governatori di Lombardia e Veneto, sicché si era bloccato tutto. Ora la faccenda è nelle mani del nuovo ministro, Francesco Boccia, pugliese, che sembra intenzionato a riprendere in mano la patata bollente.

Ovviamente la polemica politica tende a mettere in scena un cambio di passo fra una ministra di un Nordest con inclinazioni da republichetta autonoma e un ministro del Sud preoccupato di difendere il Meridione dallo svuotamento di risorse che si dice deriverebbe da una promozione delle istanze autonomiste dei cosiddetti “ricchi”.

Messa così, la faccenda diventa una farsa, mentre è urgente il problema di giungere ad un equilibrio nelle scelte per il regionalismo che è stata fatta, un po’ alla carlona, da passati governi tanto di destra quanto di sinistra.

Si tratta innanzitutto di ridiscutere un mito che è stato alla base della propaganda con cui si è voluto contenere il para-secessionismo della prima Lega: cioè che l’amministrazione dello stato fosse inefficiente e sprecona perché “lontana” dalla gente, mentre l’affidarsi ai governi regionali avrebbe portato ad una gestione più virtuosa delle risorse per il controllo più immediato che i cittadini delle regioni avrebbero potuto esercitare. L’esperienza non ha confermato affatto quel mito. Si potrebbe banalmente dire che dove c’era un retroterra sociale di un certo tipo le cose funzionavano già bene o abbastanza bene quando erano in mano allo stato ed hanno continuato in questo trend quando sono passate in capo alle regioni. Dove quel retroterra era carente o mancava, quel che non funzionava con lo stato centrale ha continuato a non funzionare sotto i governi regionali.

Alcuni mali endemici del sistema politico-sociale italiano hanno semplicemente cambiato il riferimento: la distribuzione di posti e prebende, la creazione di sistemi per distribuire opportunità di lavoro più o meno clientelare sono passati dall’essere in capo ai partiti nazionali che li gestivano attraverso le catene del centralismo, all’essere in capo ai partiti regionali, che hanno anch’essi le loro catene, opportunamente rimesse a punto. Del resto bastava vedere cosa era successo per le regioni autonome per vedere il rapporto fra il contesto e l’efficienza: bastava fare una comparazione fra la Sicilia e il Trentino-AltoAdige.

Ora cosa è successo con il procedere delle esperienze? Che i contesti in cui c’erano sistemi di cultura civica attrezzati per gestire oneri complessi le cose non solo hanno continuato a funzionare bene (in termini relativi, si capisce), ma hanno prodotto surplus che hanno generato altri surplus. Dove invece la debolezza della cultura civica ha lasciato campo libero alla vampirizzazione delle risorse a pro di potentati locali ristretti, si è innescata una discesa verso gli inferi che neppure tanto paradossalmente riduceva in ultima istanza il complesso delle risorse disponibili. Non è questione che da una parte si sia fatto molto sottogoverno e dall’altra invece ci si sia comportati con adamantina limpidezza amministrativa: il sottogoverno è stato all’opera dappertutto, solo che la capacità di mantenere il fenomeno nei limiti della decenza (mettiamola così) è stato notevolmente differente.

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