Articolo pubblicato sulle pagine del Magazine Treccani a firma di Mario Del Pero

Mancano ormai due mesi ai caucus dell’Iowa che apriranno le lunghe primarie per la scelta dell’avversario democratico di Donald Trump. Il quadro si è fatto in parte più chiaro. Dai ventiquattro candidati iniziali si è passati alla dozzina ancora in corsa oggi.

Alcuni che sembravano avere una possibilità seria di ottenere la nomina – ultima in ordine di tempo la senatrice della California Kamala Harris – hanno infine abbandonato la contesa. I sondaggi e, forse anche più, i dati sulla raccolta di finanziamenti ci dicono che quattro appaiono favoriti: la senatrice Elizabeth Warren, il senatore Bernie Sanders, l’ex vicepresidente Joe Biden e il giovane sindaco della cittadina di South Bend in Indiana, Pete Buttigieg. A loro si potrebbe aggiungere l’ex sindaco di New York, il miliardario Michael Bloomberg, che è entrato tardissimo nella competizione e non parteciperà alle prime quattro attribuzioni di delegati in febbrario – i caucus di Iowa e Nevada e il voto in New Hampshire e South Carolina –, ma che può contare su risorse economiche impareggiabili, già dispiegate per un primo raid di blitz pubblicitari in tutto il Paese. Improbabile – ancorché non impossibile – che altri candidati rientrino in gioco, soprattutto il senatore del New Jersey Cory Booker, eccellente nei dibattiti televisivi secondo tutti i commentatori, ma incapace di trarne un significativo ritorno in termini di sondaggi o di fund raising.

La partita rimane insomma apertissima. Ce lo dicono – giova sempre ricordarlo – i precedenti delle primarie repubblicane del 2016 e di quelle democratiche del 2008. Pochi a inizio dicembre avrebbero allora scommesso su Trump, che in Iowa non aveva mai messo praticamente piede e la cui impoliticità aveva tratti quasi caricaturali, o – otto anni prima ‒ sullo stesso Obama, ancora goffo e a disagio nei dibattiti televisivi, spesso schiacciato da Hillary Clinton e John Edwards. Sappiamo poi come è andata. Fatta salva questa banale cautela preliminare, tre sono le considerazioni generali che si possono fare a questo stadio della competizione.

La prima è che si sta riproponendo, sia pure in termini diversi, la frattura politica dello scontro Sanders-Clinton del 2016: una divisione, per schematizzare, tra sinistra democratica e centro liberal che è andata facendosi più acuta e marcata nelle ultime settimane soprattutto nel dibattito su temi che stanno dominando queste primarie, a partire dalla sanità, dall’istruzione e dalla fiscalità. È un cleavage, questo, particolarmente visibile nel quartetto di candidati che secondo i sondaggi stanno facendo una corsa loro: Sanders e Warren (sinistra); Biden e Buttigieg (centro). Cercare di collocarsi a cavallo tra i due non paga elettoralmente, come hanno scoperto la Harris e lo stesso Buttigieg, cui sembra avere invece giovato la decisione di accentuare la soglia dello scontro con Warren e Sanders e riposizionarsi al centro (gli ultimi sondaggi lo danno primo in Iowa). Questa polarizzazione interna è accentuata dalla competizione elettorale, ma riflette anche la natura – composita ed eterogenea – di un partito, quello democratico, assai meno coeso ideologicamente (e anche demograficamente e razzialmente) della controparte repubblicana. Mille dati evidenziano questa differenza, radicale ed essenziale, tra i due partiti. Se compariamo ad esempio le ultime primarie democratiche e repubblicane in South Carolina, nel febbraio del 2016, scopriamo che alle prime il 35% dei votanti fu bianco contro ben il 96% delle seconde; che tra i democratici ci fu una partecipazione molto più elevata tra le donne (61 a 39) e tra i repubblicani a votare furono invece in lieve maggioranza gli uomini; che l’età media fu assai più alta tra i repubblicani. La maggior diversità dei democratici è per molti aspetti una ricchezza, come stiamo vedendo in un confronto elettorale articolato, denso e sotto diversi punti di vista di alto livello. Essa però alimenta uno scontro che – come quattro anni fa – potrebbe lasciare scorie pesanti e nel quale sembrano per il momento distinguersi alcune delle giovani leve radicali del partito, come la famosa deputata di New York Alexandria Ocasio-Cortez che ha recentemente accusato Buttigieg di essere, di fatto, un repubblicano mascherato.

La seconda considerazione è relativa a Joe Biden, candidato a lungo favorito e che si trova oggi evidentemente sulla difensiva: perché l’asse del partito, e della discussione, si sono spostati a sinistra; e perchè Biden i suoi 77 anni li sta mostrando tutti, nella visibile fatica di una campagna elettorale di per sé logorante e in dibattitti, televisvi e non, durante i quali è apparso frequentemente impacciato e incerto. Le difficoltà di Biden si sono manifestate sia nei sondaggi ‒ che lo vedono ancora in testa in quelli nazionali (che però non sono particolarmente significativi), ma in netto calo in Iowa, dove il consenso di cui gode si sarebbe dimezzato – sia nella raccoltà di finanziamenti, dove l’ex vicepresidente non riesce a tenere il passo di Sanders, Warren e Buttigieg. La crescita del consenso e della popolarità di quest’ultimo si spiega appunto con lo spazio liberato al centro dalle difficoltà di Biden, che aiutano a comprendere anche la decisione di Bloomberg di candidarsi in opposizione ovviamente alle proposte di Sanders e Warren, nel convincimento che al centro si possano vincere tanto le primarie quanto la presidenza, e con un occhio anche al modello di Trump 2016. Di quest’ultimo Bloomberg – ancor privo di una infrastruttura elettorale sul terreno – pensa in una certa misura di poter replicare la strategia, nazionalizzando la competizione e usando in modo intenso i media.

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