Dall’Europa, nei prossimi mesi, arriverà l’ultima chiamata per l’Italia. Si, l’ultima chiamata. L’ultima chiamata per coloro ai quali interessa che il nostro Paese abbia un futuro ben saldo e rivesta un ruolo centrale nell’Unione Europea e nelle sue articolazioni istituzionali interne. Una ultima chiamata alla quale la classe dirigente del nostro Paese, sia politica che tecnico-imprenditoriale non può sottrarsi, pena lo scivolamento progressivo del Paese verso i margini decisionali e politico-economici dell’Unione. Ne sarà all’altezza? Sarà in grado di progettare adeguatamente il futuro del nostro Paese, se non per noi almeno per i nostri figli e nipoti, per quella che sarà, tra 20-30 anni, la “next generation EU”?

La crisi, prima sanitaria e poi economica, scatenatasi durante la diffusione del Coronavirus ha profondamente cambiato le priorità dell’Unione Europea, facendone saltare improvvisamente ogni forma di improvvido rigore economico. Con l’eccezione di alcuni Stati membri tendenzialmente riottosi a forme di indebitamento solidale a favore di Stati notoriamente meno rigorosi nella allocazione ed utilizzo delle proprie risorse, ( e purtroppo come l’Italia sotto la lente di ingrandimento per precedenti fenomeni di corruzione ed infiltrazioni della criminalità) il prossimo 19 giugno il Consiglio Europeo discuterà senza sostanziali modifiche la proposta della Commissione europea, che rafforza la precedente proposta franco-tedesca e tiene conto del maggior impatto dell’emergenza sanitaria in Italia e Spagna.

Anche qualora vi fossero divergenze da appianare, un secondo Consiglio europeo, previsto per la prima metà di luglio, dovrebbe dare il semaforo verde alla proposta di interventi poderosi da parte della Commissione, sino ad arrivare al voto del Parlamento Europeo sul bilancio pluriennale dell’Unione. 

Ed è qui che il Parlamento giocherà le sue carte, intervenendo anche sugli strumenti adottati per la ripartenza europea dopo la pandemia, da un lato contribuendo alla individuazione dei tetti massimi di spesa dall’altro contribuendo ad identificare le nuove entrate dell’Unione e dunque quali settori colpire (Digital Tax, tassa sulla plastica e/o sul carbone), ovviamente dovendo al contempo prefigurare le inevitabili ricadute su questi settori produttivi.

Infine, la ratifica da parte dei singoli Parlamenti nazionali dovrebbe far diventare finalmente operativi gli aiuti finanziari a partire dal primo gennaio 2021. 

Ma di cosa si discute in concreto? E cosa può fare l’Italia nel frattempo, oltre che provare strenuamente a resistere fino alla fine dell’anno mentre sempre più si addensano i segnali della crisi economica?

Gli aiuti economici

Mai l’Unione Europea aveva nesso in campo un progetto di interventi economici così ambizioso ed in così poco tempo (normalmente un processo simile avrebbe comportato in passato almeno due anni di discussioni e tempi di approvazione). 

Si tratta di una riforma di tipo strutturale, con effetti nel medio-lungo periodo e che verrà adottata comunque preservando il bilancio dell’Unione, anch’esso profondamente modificato. Un insieme di contributi a fondo perduto e di prestiti (per questi ultimi si ipotizza oltre ad un tasso bassissimo una scadenza trentennale o addirittura sino al 2058) che non ha nulla a che fare con quanto l’Unione Europea adottò per fronteggiare la crisi del 2008 e quella del 2012.

Tralasciando quanto già fatto dalla Banca Centrale Europea con l’acquisto massiccio di titoli italiani a supporto della nostra economia, (oltre 37 miliardi negli ultimi due mesi), ecco quale potrebbe essere lo scenario dei futuri aiuti economici per l’Italia:

  • dal Sure: 15-20 miliardi per le politiche per l’occupazione ed il lavoro;
  • dal MES: 37 miliardi per le spese sanitarie;
  • dalla rimodulazione dei Fondi di Coesione 2014-20: 6-7 miliardi;
  • dalla BEI: 35 miliardi;
  • dal progetto Next Generation EU: 90 miliardi di prestiti agevolati più 80 di sovvenzioni.

Una somma enorme, da spendere nel biennio 2021-23 e pari a circa il 15% del nostro PIL. 

L’Italia, a fronte di questi aiuti (e con buona pace dei sovranisti) se sarà in grado di spendere questi fondi non sarà più un Paese contributore netto ma entrerà nel novero degli Stati che ricevono dall’Europa più di quanto danno annualmente come quota di partecipazione. 

Il ruolo dell’Italia: un progetto per il Paese

Ma saremo in grado, come Paese, di fare la nostra parte, cioè di saper beneficiare di questa enorme mole di denaro? Dopo anni nei quali l’Italia si collocava agli ultimi posti in Europa a causa del divario tra i fondi stanziati a suo favore e la realizzazione concreta delle opere, soprattutto per il mancato utilizzo nelle Regioni del Sud, ed una media di utilizzo poco superiore al 50% dei fondi stanziati a suo favore, ora da alcuni anni le cose vanno molto meglio. E tuttavia, secondo un articolo di Giuseppe Chiellino su “Il Sole 24 ore “del 9 gennaio di quest’anno, l’Italia non era stata comunque in grado di utilizzare “un tesoretto di 38 miliardi di euro, di cui circa una trentina finanziati dalla politica di coesione dell’Unione europea: sono le risorse che le Regioni e alcuni Ministeri dovranno spendere entro il 2023 per realizzare progetti e iniziative per i quali sono già stati impegnati”.

Resta quindi da sciogliere il nodo della nostra competenza progettuale e della efficacia concreta delle nostre azioni, oltre che della burocrazia. A ciò si deve aggiungere la vigilanza sulla qualità della proposta politica e progettuale sia a livello regionale che a livello centrale.

La crisi indotta dal Coronavirus può trasformarsi per l’Italia in una straordinaria occasione di rilancio economico, di rinnovamento strutturale, di individuazione di priorità e di aree economico-produttive per le quali mirare all’eccellenza europea e mondiale. A livello europeo i Commissari Thierry Breton (Mercato Interno) e Paolo Gentiloni (Economia) stanno lavorando insieme per definire gli interventi che arriveranno ai singoli Stati, e da questi alle Regioni e a cascata a quelli che saranno individuati come distretti produttivi all’interno dei territori regionali.

È tempo che il dibattito delle forze politiche italiane si alzi di livello, mettendo da parte sterili ed inutili polemiche. Serve un piano complessivo e forte di rilancio del Paese, che veda un confronto politico su temi concreti, sulla “idea” di Paese che si vuole proporre. Un piano che sia già pronto per Settembre e che sia presentato in forma credibile alle forze sociali ed imprenditoriali del Paese, al Parlamento e successivamente spiegato in forma  strutturata all’Unione Europea, per dare concretezza finalmente ad una visione sul futuro del Paese che modelli una società davvero moderna ed innovativa, aperta al contributo delle nuove generazioni, improntata allo sviluppo eco-sostenibile ed alla digitalizzazione ad ogni livello, in linea con le priorità dell’Europa Digitale e del Green Deal, tematiche che vedranno fortemente impegnate le Istituzioni europee nei prossimi anni.

È l’ultima chiamata. Non sprechiamola.