All’inizio del nuovo anno gli articoli che sui diversi quotidiani presentavano, come da tradizione, i temi principali che sarebbero stati all’attenzione della politica internazionale nel 2024 evidenziavano il diffuso ricorso alle urne che lo avrebbe caratterizzato. E infatti così sarà, e in parte è già avvenuto, come nel caso di quell’estesissimo paese sparso fra l’oceano Indiano e il Pacifico che è l’Indonesia.
Ciò che inoltre si faceva notare – ed è questo il punto che preme sottolineare – era il non uguale tasso di effettiva democraticità, per usare un eufemismo, che tutte queste elezioni detengono.
L’Economist ha elaborato una mappa del globo con nove differenti gradazioni di colore a indicare – nei paesi interessati quest’anno da una consultazione elettorale – proprio questo tasso, andando dalle democrazie pure a quelle in difficoltà, da nazioni in una condizione “ibrida” ai regimi autoritari. Come purtroppo sappiamo (ma forse non ne siamo sufficientemente preoccupati) i paesi del primo tipo sono minoritari e sono quasi tutti parte della cultura occidentale.
Non è allora sbagliato, anche se il tono può apparire vagamente apocalittico, affermare che questo anno (bisestile, fra l’altro!) è un test assai rilevante per verificare lo stato di salute delle democrazie nel mondo. A cominciare dalla principale.
Le presidenziali americane, il primo martedì di novembre, chiuderanno l’anno elettorale e saranno il test più importante in assoluto, al riguardo. Occorre essere netti sul punto, perché nel mondo iper-tecnologico e iper-comunicativo odierno si fa presto a dimenticare gli eventi, anche quelli di un recente passato: ma il dato è che il leader – non pentito, tutt’altro! – che il 6 gennaio di soli tre anni fa tentò di fatto un colpo di stato o quantomeno non fece nulla per impedire l’oltraggio alle sacre istituzioni democratiche degli Stati Uniti d’America e che ancora adesso sostiene, mentendo palesemente, che il vero risultato delle votazioni del 2020 fu manipolato, è nuovamente in lizza per la presidenza ed ha buone possibilità di vittoria. Al di là di ogni altra considerazione sulle cose che dice Trump nei suoi comizi, il fatto che il Partito Repubblicano – storica pietra angolare della democrazia a stelle e strisce – sia precipitato nelle mani del tycoon newyorkese testimonia plasticamente l’affaticamento della democrazia in quel grande paese.
Fra pochi giorni, invece, la nazione più grande al mondo per estensione andrà pure essa al voto presidenziale. A Mosca però si sa già chi vincerà; non si sa solo con quale percentuale. Putin avrà deciso per un clamoroso 90% o opterà per un più contenuto 75 o 80 per cento? Più baldanzoso che mai, l’uomo del Cremlino è convinto non solo di avere quasi in tasca la vittoria in Ucraina ma anche di aver iniziato con pieno successo il processo di allargamento della sfera di influenza russa nel globo, inqualificabilmente perduta con la fine dell’Unione Sovietica, evento ai suoi occhi tragico al quale vuole porre rimedio.
La vittoria in Ucraina significherebbe intimorire, per ora, poi si vedrà, i paesi baltici, la Moldavia e in generale i paesi del fu Patto di Varsavia, a maggior ragione nell’ipotesi di una vittoria di Trump, come noto assai poco ben disposto verso le nazioni europee e la NATO. In Europa Putin conta inoltre di accrescere il ruolo russo nei Balcani, ove sostiene in ogni modo i gruppi panslavi e ove ha già qualche testa di ponte in Serbia e Bosnia-Erzegovina. Sul Mediterraneo ha conquistato spazi strategici sia a est, in Siria, sia al centro, in Libia, dove progetta di costruire una imponente base navale. In Africa sta acquisendo peso e spazi in tutta la fascia del Sahel, strategica per gestire il fenomeno migratorio che tanto assilla la UE. In Asia ha stretto legami militari con il regime della Corea del Nord, che lo rifornisce di munizioni da spendere in Ucraina, e con l’Iran, che lo alimenta di droni e missili. Con la Cina ha stabilito un rapporto di grande “amicizia” che maschera l’effettiva sudditanza al Dragone, un prezzo che però oggi deve pagare ma che gli assicura un sostegno politico importante, ancorché prudente, in sede ONU e non solo. E da ultimo anche nell’America Latina, più precisamente nel Venezuela ricco di petrolio, Putin ha instaurato un consolidato rapporto foriero di possibili sviluppi futuri, come la vicenda della Guyana, su cui Caracas ha posato gli occhi e non solo, potrebbe testimoniare a breve.
Fra il marzo russo e il novembre statunitense si collocheranno le elezioni indiane e quelle per il Parlamento europeo. Si usa dire che quella indiana è la più grande democrazia del mondo. Ed è vero, poiché si sta parlando del paese, un sub-continente addirittura, più popoloso del pianeta, avendo da poco superato la Cina. Le elezioni parlamentari indiane si celebrano però in un clima che non assicura al cento per cento un confronto perfettamente democratico. Qualche tendenza autocratica la lunga presidenza Modi e il dominio del suo partito la sta mostrando, ad esempio in tema di rispetto delle confessioni religiose estranee all’induismo dominante. Sono stati inoltre in questi anni accentuati i toni nazionalistici con modalità comunicative vagamente preoccupanti.
L’India è fondamentale per i futuri assetti mondiali, e la sua contemporanea appartenenza al progetto BRICS plus del Global South a guida cinese, con la partecipazione russa, e all’accordo militare QUAD con Stati Uniti, Australia e Giappone per il controllo dell’Oceano Indiano e la sua protezione da possibili espansionismi cinesi già di fatto enunciati tramite la Belt & Road Initiative, lascia aperta ogni ipotesi per il futuro, con un grado di ambiguità che un po’ insospettisce gli occidentali.
Infine, il voto per Strasburgo. Sappiamo bene quali sono i limiti dell’Unione e la crescente importanza della geopolitica li dimostra tutti. La partita che si gioca è però esattamente questa: superarli, con una politica estera e di difesa comune ai Ventisette e in prospettiva a nuovi partner, dalla martoriata Ucraina, alla Moldavia, ai paesi balcanici. E con il passaggio al voto a maggioranza sui dossier più rilevanti, oggi perennemente a rischio di boicottaggio anche solo con un “no” di un qualsiasi paese. Ma per poter non dico procedere, ma anche solo decidere di procedere occorre un risultato elettorale che premi le forze politiche sia dello schieramento moderato sia di quello progressista aventi sincera vocazione europeista.
La vittoria dei partiti sovranisti o addirittura di estrema destra, o comunque un loro significativo successo in termini percentuali, segnerebbe un indebolimento forse definitivo del progetto federalista. Con grande soddisfazione di Putin. E di tutti gli altri autocrati sparsi per il globo.