Un certo “laborismo” di Campanini: quale dialogo, per fare cosa?

 

Campanini si trova a rimaneggiare una proposta che Livio Labor lanciò a Lucca nel 1967 quando ancora non aveva rotto con la Dc. A suo giudizio era giunto il momento di modellare, contro l’eventualità di una “diaspora improduttiva”, un’alternativa orientata alla “riqualificazione politica dell’esperienza dei cattolici”. Dunque, suggeriva di dar vita a un movimento a base popolare cristiana, di per sé autonomo dal partito. Cosa può evocare oggi questa idea, ben sapendo delle differenze di quadro storico-politico?

 

Ubaldo Alessi

 

Come abbiamo letto su queste pagine online, Sandro Campanini denuncia un deficit d’iniziativa dell’area popolare e riformatrice operante nel quadro di un cattolicesimo politico oggi in affanno. Non si nasconde le difficoltà e gli intoppi legati all’impresa, ma li sottopone al vaglio di una preoccupazione crescente, quella cioè dell’inaridimento delle fonti ispiratrici e a seguire, sul piano pratico, quella della caduta di creatività e incisività del “cristianesimo democratico”, a contatto con una società oramai fortemente secolarizzata. Non è un problema organizzativo, dunque, o meglio non è solo un problema di tipo organizzativo; se fosse questo, avremmo avuto dei frutti a seguito delle reiterate combinazioni d’incontri e di annunci, talvolta persino con la temeraria convinzione di aver fondato un partito, un partito vero, e magari pure con la supponenza di presentarsi come soggetto pubblico nuovo, al di là o finanche al di sopra della pur gravosa suggestione dell’evo democristiano; e perciò, essendo l’organizzazione un parametro di un disegno ben altrimenti pensato e nutrito sotto l’aspetto delle argomentazioni strategiche, ecco che la questione si pone nei termini più appropriati, ossia come richiamo alla serietà della politica, al suo carattere predittivo a misura del progetto adottato, alle responsabilità calibrate sulle ambizioni ostentate.

 

Si coglie allora nell’invito di Campanini al dialogo – non in nome dell’unità cattolica, bensì in ragione dell’affinità di visione dei riformisti cristiani – la fiducia o comunque la speranza che maturi per questa via la crescita di consapevolezza di un movimento che nella fragilità dell’ora sente, in ogni caso, il dovere di non rassegnarsi a giocare nelle retrovie della storia. È una scommessa, ma non azzardata come spesso accade nel pragmatismo della politica, vuoto di premesse e rigonfio di azzardo; essa presume, al contrario, di piegare la pigrizia e il disincanto, per ridare spessore alla formula dell’engangement; e infine si pretende, con essa, di chiamare a raccolta quelli che potremmo ancora definire, con spirito nuovo, “gli uomini di buona volontà”.

 

In effetti, Campanini si trova a rimaneggiare a distanza di oltre mezzo secolo una proposta che Livio Labor lanciò quando ancora non aveva rotto con la Dc. Correva l’anno 1967 e l’occasione fu data dal convegno di studio convocato a Lucca da cinque “intellettuali d’area”, vale a dire Vittore Branca, Sergio Cotta, Gabriele De Rosa, Cornelio Fabro e Vittorino Veronese. Labor partiva dalla constatazione che un ciclo della vicenda civile ed ecclesiale si era chiuso, sicché con l’avvento della società dei consumi e l’impatto del post-Concilio la Dc rischiava di perdere la bussola, sempre più distaccandosi dalla realtà. “Ora, come non accorgersi – spiegava nel suo intervento dalla tribuna – che anche in Italia la civiltà industriale con il suo impetuoso avanzare ha messo in crisi le ideologie e i sistemi, ha fatto esplodere tutte le soluzioni prefabbricate”. A subire lo scacco era il classismo marxista, ma nondimeno l’interclassismo democristiano “quale mediazione di interessi e squilibri precostituiti”. Dunque, secondo Labor bisognava rispondere alle nuove sfide puntando a “coagulare precise volontà politiche capaci di impiegare – di pilotare direi – a servizio dell’uomo tutte le conquiste della scienza e della tecnologia”. Ecco perché, concludeva l’allora Presidente delle Acli, era giunto il momento di modellare, contro l’eventualità di una “diaspora improduttiva”, un’alternativa orientata alla “riqualificazione politica dell’esperienza dei cattolici”.

 

Da questa analisi Labor faceva scaturire la prospettiva di un dialogo a tutto campo tra forze sociali e partito, riconoscendo al pluralismo delle esperienze civili – gruppi, associazioni, sindacato – una peculiare ricchezza di elaborazione e indirizzo, per ricostruire sul rispetto e la valorizzazione di tali autonomie “un grande movimento di democrazia cristiana”. Talché, asseriva alla fine, questo “movimento potrebbe più facilmente superare tutto ciò che di rigido, di chiuso si usa associare oggi al termine «partito» …[dando vita a] una realtà nuova, veramente aperta e disponibile agli apporti distinti che provengono dalla società”. Si trattava, in definitiva, di pensare la nascita di un movimento che non fosse il prodotto del partito, ma piuttosto l’actio finium regundorum di sensibilità e posizioni autonome, così da preservare il filo di unità tra le diverse esperienze del cattolicesimo sociale e democratico. All’usura della Dc veniva applicata non già la cosmesi del doroteismo, quanto la forza creativa del sentimento popolare cristiano.

 

Labor muoveva dal rischio di depauperamento del cattolicesimo democratico e aveva di fronte un partito anchilosato, ma elettoralmente robusto. Oggi le condizioni sono tali da non permettere la pedissequa ripetizione di quello schema, vuoi perché la base popolare cristiana si è ristretta, vuoi perché non esiste un partito di riferimento simile, appunto, alla Dc del tempo. Tuttavia, dello schema di Labor residua il principio di una vitalità del pre-politico che occorre riconoscere e valorizzare, sapendo visualizzare l’obiettivo di fondo. Campanini confessa di preferire che ciò avvenga dentro la cornice di un grande partito, dando perciò credito al rinnovamento del Pd; altri considerano eccessiva questa fiducia, immaginando che prima o poi sopraggiunga il big bang dell’attuale universo politico e quindi l’apertura di altri processi aggregativi o riaggregativi. Certamente è una differenza che pesa nel dialogo da intraprendere, come indica il “laborista” Campanini; e però non impedisce, tale differenza, di rompere gli indugi, andando incontro a una verifica onesta e produttiva, almeno tra i cattolici dì orientamento per così dire progressista. L’importante è tenere aperta la riflessione sul che fare, dimenticando per un momento l’assillo di un partito su misura per i cattolici.