John Maynard Keynes è considerato un maestro del pensiero economico contemporaneo. Ha insegnato – a generazioni di economisti e “policy makers” – come spetti anche agli Stati assicurare un certo livello di attività produttiva e di occupazione, garanzia che non si può lasciare solo alla “mano invisibile” del mercato (come teorizzava invece Adam Smith).

Keynes non è solo un economista, ma è anche colui che ha ricondotto questa disciplina nell’ambito delle scienze sociali. Colui che ha rovesciato, alle soglie della Seconda guerra mondiale, il predominio di un indirizzo dominante negli anni precedenti: cioè una concezione dell’economia che aveva cercato di assimilarla alle «vere scienze», alle scienze della natura. E l’aveva ridotta a una scienza arida e “triste”, al di fuori delle possibilità di comprensione e di attrazione per coloro che volevano, dagli economisti, un aiuto a capire e migliorare le società in cui vivono.

Keynes vinse la battaglia e anche alla sua vittoria teorica è dovuto il mondo di ieri, i quarant’anni di benessere diffuso di cui i Paesi capitalistici e liberali avanzati hanno goduto tra gli anni Cinquanta e gli anni Novanta del secolo scorso. Ma non vinse la guerra e la reazione degli economisti “tradizionali” non si fece attendere a lungo. Oggi, in epoca di Covid 19, che ha mutato profondamente le nostre abitudini di vita e di lavoro, sembra esserci un ritorno d’interesse per il pensiero Keynesiano.

Di questo (e molto altro) si è parlato il 28 maggio scorso nel dibattito sul tema “Un nuovo piano Marshall? La sfida della ricostruzione” promosso dal Domani d’Italia in modalità on-line. Dopo l’introduzione di Lucio D’Ubaldo, è stato di grande rilievo l’intervento di Giovanni Farese, curatore insieme a Giorgio La Malfa del Meridiano Mondadori dedicato proprio a Keynes. Il volume raccoglie numerosi scritti dell’economista britannico (alcuni inediti in lingua italiana) tra cui il saggio “Il costo della guerra” del 1944 che introduce per la prima volta l’idea di una politica dei redditi a sostegno dell’occupazione. Come è stato ricordato, il Piano Marshall (European Recovery Program) prevedeva uno stanziamento di 14 miliardi di dollari, parte in prestiti (loans) e parte in contributi a fondo perduto (grants) per un periodo di quattro anni (1948-1951). Il Piano Marshall indicò agli europei che l’interdipendenza economica poteva essere una soluzione ai conflitti, che avevano caratterizzato a lungo la loro storia. Pur non opponendosi allo sviluppo del commercio internazionale (come richiesto dagli Stati Uniti), la quasi totalità dei Paesi europei beneficiari dell’ERP chiese di poter utilizzare i finanziamenti erogati per l’acquisto di generi di consumo di prima necessità e assai meno per la modernizzazione delle loro economie. In questo senso, l’Italia guidata da De Gasperi “rappresentò un esempio di sobrietà nel panorama europeo”, come ha ricordato Lucio D’Ubaldo. 

Quali sono le lezioni del piano Marshall oggi? La situazione odierna, in Italia e in Europa, è simile a quella sulla quale il dibattito economico ebbe modo di riflettere, ai tempi dell’assetto che le economie liberali e democratiche si diedero a Bretton Woods nel 1944. Come nell’immediato dopoguerra, anche oggi il crollo del reddito, la disoccupazione e la povertà incrinano la coesione sociale di molti Paesi. Il Covid 19 ha ingrossato le fila di un nuovo “esercito industriale di riserva”. E siamo nel mezzo di una rivoluzione tecnologica così veloce e profonda che non riusciamo a capire come sarà organizzata la società del prossimo futuro e se riuscirà a dare lavoro, dignità e reddito a una buona parte dei suoi cittadini.

Dunque un’economia di mercato temperata da interventi pubblici necessari, nel contesto di un ordine politico social-democratico, può aiutare a fronteggiare meglio i problemi attuali. In economia non ci sono leggi ferree che si impongono con la necessità delle leggi naturali e una «discrezione intelligente» può sempre essere preferibile rispetto a «regole stupide». Quando Prodi diceva che il Patto di Stabilità (spazzato via dal Covid 19) è “stupido” si riferiva proprio a Keynes. Una discrezione intelligente, orientata al bene comune, richiede però classi dirigenti capaci di esercitarla. E questo è un problema non proprio trascurabile.