E se auspice la Fondazione dei Popolari si ripartisse con “Il Popolo”? E se dessimo di nuovo vita al Partito Popolare Italiano (Ppi) e ci organizzassimo come facevano – anzi fanno tuttora – al Partito Radicale per una nostra battaglia delle idee? Le carte in regola le abbiamo, per fare battaglia politica. E come i radicali non mi porrei il problema di andare alle elezioni. Anzi. Proprio per garantire di far cambiare l’agenda politica dobbiamo evitarlo. E dobbiamo portare “scompiglio” politico ed ideale, in tutte le parti politiche, permettendo la “doppia tessera”. Io starò nel Pd e nel Ppi. E nel Pd porterò i temi del Ppi.
Roberto Di Giovan Paolo
Sono tra coloro che son “sospesi”. Ovvero tra coloro che scelsero il percorso Ppi, Margherita, Partito Democratico. Convinto dalle scelte dei Popolari al Convegno di Chianciano e dalle relazioni di Orvieto (Scoppola, Gualtieri, Vassallo) nonché dal Manifesto dei Democratici che oggi un comitato ridondante e pomposo dovrebbe solo spiegarci come attuare, più che tentare di riscrivere sulla base delle divisioni pseudocorrentizie del momento (lasciamo perdere le correnti politiche di un tempo, con una loro storia e una linea politico-culturale…una rivista di dibattito: erano altra cosa).
Ho fatto questo percorso sempre con convinzione ma mai pensando che altri amici che venivano dalla mia stessa storia e hanno scelto traiettorie diverse fossero in errore e io sempre nel giusto; l’ho fatto, cioè, praticando il dubbio e rispettando gli avversari, con convinzione. Ed è il motivo per cui credo sia giusto per chi ha fatto le mie stesse scelte andare fino in fondo a questo Congresso del Pd e verificare se esistono le condizioni per garantire, non solo a noi – questo dovrebbe essere l’alto compito del comitato di oltre 90 persone – ma al Paese, una forza politica capace di farlo progredire (progressisti perciò) e di saper proporre un’alternativa realistica (parlando quindi al Paese tutto) e quindi puntando a vincere le elezioni per andare al Governo, non solo a soddisfare i propri istinti valoriali contentandosi di una “bella battaglia” (m’hanno “fatto nero” ma quante gliene ho date…).
Questo era proprio il motivo per cui il Partito Comunista Italiano aveva cominciato a sviluppare una “cultura di governo”: saper comprendere che governare non è tradire le masse, anzi al contrario…tradire le masse e i propri elettori è sfiancarli in rivendicazioni che non si vuole portare al confronto e alla mediazione politica conseguente. In politica non si vince “tutto o niente” e anzi, proprio la mentalità da gioco a somma zero, è uno dei motivi che oggi minano anche democrazie gloriose come gli Usa dove molti scienziati della politica si rendono conto di quanto la sfida “mortale” tra due soli partiti abbia eliminato le sacche di democrazia interne a Democratici e Repubblicani (pensate ad un Johnson rispetto a Kennedy oppure a un Bush padre rispetto a Trump). E in ogni caso oggi in Italia, complice una legge elettorale pessima, e vari cedimenti al populismo come la diminuzione dei parlamentari e della loro rappresentanza territoriale, abbiamo vari poli e non solamente due coalizioni, e ci dobbiamo fare i conti.
Tornando al Pd ecco allora che il problema principe non è se sopravviverà la mia cultura, ma anche se sopravviveranno in generale tutte le culture politiche che lo hanno generato, pur con le loro contraddizioni e dubbi, per cedere ad un pragmatismo, moderato o radicale poi conta poco, che rischia di far retrocedere il Pd ad una sorta di bric-à-brac della politica del “presenteismo” attuale.
Il rischio, lo chiarisco ulteriormente, non è che venga a mancare la cultura cattolico democratica con il suo apporto di riflessione su persona e comunità, la cultura della mediazione alta e delle alleanze, ma anche le altre culture, compresa quella comunista del Pci, dal momento che già Ingrao e il suo “campo largo” sono maldestramente interpretati con l’idea di un accordo con Conte e così sia…Oppure, appunto, la cultura di governo che ricordavo prima, ovvero quella di chi nel Pci riteneva che ogni passo in più sindacale o politico della democrazia fosse una garanzia in più per le classi (si diceva così allora) che erano escluse dalle decisioni. C’era confronto e sfida con il popolarismo ovviamente, ma il senso di dover fare i conti con il popolo, ovvero con la necessità di “educarlo” alla democrazia, di dare diritti e conseguenti doveri, era un terreno anche di scontro ma comune.
Ora, se vince un Pd “carino, educato, da talk show” capace solo di parlare di attualità e malato di protagonismi personali e di una sorta di “populismo buono”, il Manifesto e il convegno di Orvieto vengono azzerati di fatto, per tutti, non solo per i Popolari. E dunque la questione non è avere un candidato “nostro”, ma di avere un partito “nostro”, per chi ci ha investito tempo e voglia di andare oltre l’Ulivo.
L’impressione però è che questa consapevolezza non ci sia, e anzi alcuni puntino proprio a sfasciare il Partito democratico, chi per nostalgia, chi per disorientamento e confusione, chi immaginando cinicamente (per le categorie più deboli che dovrebbe rappresentare) che una bella sinistra al 30 per cento ( arrivarci eh…) ti dia maggiore tranquillità: puoi comiziare come vuoi folle osannanti, con la sicurezza che tanto poi non dovrai mai “sporcarti” le mani con il governo di qualsivoglia istituzione. Io spero di no, ma intravvedo il piano inclinato. Peraltro in una situazione generale che potrebbe tendere al Presidenzialismo, che diverrebbe in ogni caso un elemento fondante di nuova legge elettorale, e sistema nuovo di relazioni con il popolo (populismo al picco possibile…)
E allora noi che veniamo dal Ppi e abbiamo fatto questa strada?
Noi siamo cresciuti in una cultura che sa dare battaglia, non si convince per approssimazioni dialettiche e rimane spesso a fare anche la minoranza quando serve. E tuttavia, se consideriamo anche la vicenda del Terzo Polo ci troviamo di fronte ad un quadro asfittico: una sorta di Pri-Pli, ma senza i La Malfa e i Malagodi. Un centro che teme la presenza del cattolicesimo democratico e tutto attento alle questioni personali e personalissime interpretate quando ha tempo da Renzi, uno che il metodo democristiano lo conosce bene ma valorialmente è “a-democratico cristiano”, e da un figlio della sinistra altoborghese anche simpatico, e un po’ “fru fru”, ma che ha praticato la politica sulle colonne di “Repubblica” più che nelle sezioni o sui territori (come molti dirigenti che fanno finta di essere di sinistra nel Pd: avete presente Gaber e la sua “Far finta di essere sani?”.)
E allora? direte anche giustamente. Una piccola idea, per ora solo un embrione di idea, che però mi è nata dall’anno scorso quando alla presentazione del libro di Giorgio Merlo su Donat Cattin sentii un ispirato intervento di Castagnetti che non si abbandonò alla nostalgia, raccontando di quanto le idee cattolico democratiche del popolarismo avessero davvero grandi possibilità di essere presenti ora e nel futuro. Dunque, se auspice la Fondazione dei Popolari si ripartisse con “Il Popolo”? E se dessimo di nuovo vita al Partito Popolare Italiano e ci organizzassimo come facevano al Partito Radicale – anzi fanno tuttora per una nostra battaglia delle idee? Se penso alla nostra idea di immigrazione e a ciò che dice Papa Francesco sulle ondate umane che trasmigrano nel pianeta, io penso che sono lontano dalla destra ma anche da Minniti, francamente. E se volessimo parlare di lavoro, dignità delle condizioni dei lavoratori, non mi basta la difesa dei pensionati e dei lavoratori dipendenti del sindacato di Landini. Siamo molto più a favore dello sviluppo, certo sostenibile, e della creatività dei piccoli e medi imprenditori e dei tanti giovani sfruttati.
Noi non siamo con la Thatcher e Reagan (e con i Tremonti boys…) e neanche con i loro epigoni di sinistra che si vergognano a dirlo, ma hanno fatto battaglie per “patrioti” di compagnie aeree ed aziende infrastrutturali privatizzate male e col rischio oggi di doverle salvare. Siamo per una sanità pubblica, e per tutti, e per una educazione che torni ad essere “ascensore sociale” sano della nostra società; siamo per gli ultimi senza fargli la carità dei diritti, ma propagandando la lotta per i diritti a fianco dei doveri. Siamo per la persona e la comunità che vengono prima dello Stato, e per uno Stato che non sia notaio – ricordiamo l’ordine del giorno Dossetti del settembre 1946 – ma levatrice di un cambiamento sociale. Per questo siamo progressisti e, ci scommetto, se andassimo a fare i conti davvero, anche…“più di sinistra” della sinistra attuale. Fate un confronto tra il Presidente del Consiglio Prodi e quelli della “sinistra” come D’Alema, o vezzeggiati dalla sinistra borghese dei giornali, come Monti…
Insomma le carte in regola le abbiamo, per fare battaglia politica. E come i radicali non mi porrei il problema di andare alle elezioni. Anzi. Proprio per garantire di far cambiare l’agenda politica dobbiamo evitarlo. E dobbiamo portare “scompiglio” politico ed ideale, in tutte le parti politiche, permettendo la “doppia tessera”. Io starò nel Pd e nel Ppi. E nel Pd porterò i temi del Ppi. Come? Esempi? Immigrazione. Per cui molti nel centrosinistra si riempiono la bocca di slogan e poi fanno come le destre (vedi Conte per esempio, il governo più di destra della Repubblica sinora…). Noi abbiamo i valori di Papa Francesco. E in politica il tentativo di governo sui territori da cui parte l’immigrazione, dell’Ulivo e del Governo Prodi. Bene. Allora come Ppi, per esempio, lanciamo il referendum per l’abrogazione della Legge Bossi-Fini e successive modificazioni. Raccogliamo le firme, avendo inserito il trema in agenda politica, e chiediamo ai partiti dove altro siamo eventualmente iscritti di adeguarsi alla battaglia dei diritti che in questo caso sono sociali e civili e riguardano qualche milione di persone.
È possibile? È un’utopia? E perché? La Legge sull’obiezione di coscienza fu a firma del partigiano Marcora. La prima legge sulla fame nel mondo propugnata da Pannella fu a firma perfino di Flaminio Piccoli…La finisco qui. Ma credetemi in tempi di rischio Populismo-Presidenzialismo esserci sarà essenziale!