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venerdì, 13 Giugno, 2025
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Un referendum che lascia tutti a mani vuote

Il modo entro cui i relativi referendum hanno costretto il tema del lavoro, offende l'intelligenza politica e oscura la percezione che il tempo è propizio per rilanciare un nuovo modello economico.

I referendum dell’8 e 9 giugno scorsi lasciano comunque una loro eredità e degli insegnamenti con cui, credo, sia utile confrontarsi.

L’effimero senso di vittoria, o di disfatta, a seconda degli schieramenti, delle prime reazioni a caldo, sta lasciando il posto a considerazioni più riflessive. L’esito di questi quesiti è parso una sostanziale conferma delle forze in campo. L’elettorato del centrodestra, pur saldandosi con un alto tasso di astensionismo ormai cronico, è stato determinante nel fallimento dei referendum.

Nel contempo, però, la mobilitazione del centrosinistra, insufficiente per raggiungere il quorum, permette di ribadire che esiste un’area di elettori attivi, pressappoco equivalente a quella dell’altro schieramento, pronta a farsi sentire ai

prossimi appuntamenti elettorali.

Nel merito, questi referendum hanno rischiato di far passare l’idea che a problemi complessi, come il lavoro e l’immigrazione, si potesse rispondere in modo binario, come fanno i computer. È questo, forse, il vero lascito della consultazione: una riflessione sullo scarto crescente tra democrazia procedurale e democrazia sostanziale, dove mancano partecipazione quotidiana, progetti politici credibili e rappresentanza effettiva.

UnItalia ancora in cerca di rotta dopo Yalta

Se prendiamo il modo e i termini entro cui i referendum hanno costretto il tema del lavoro, si può avere la conferma dell’inadeguatezza dell’attuale dibattito pubblico. L’Italia continua a vivere contraddizioni profonde: salari stagnanti, ceto medio impoverito, giovani in fuga all’estero, disuguaglianze crescenti.

Una classe dirigente degna di questo nome dovrebbe partire da una diagnosi seria sulla fase storica che stiamo attraversando. E tale diagnosi deve partire dal riconoscimento del ruolo geopolitico dell’Italia, Paese sensibile ai cambiamenti per la sua collocazione mediterranea, e protagonista in passato del modello di sviluppo nato nel quadro degli accordi di Yalta.

Il superamento di quel ciclo ha coinciso con la crisi della prima Repubblica. Il trentennio successivo ha visto l’Italia adattarsi alle regole del mercantilismo occidentale, subendo cambiamenti strutturali, anche in tema di lavoro.

Serve un nuovo modello economico, radicato nel multilateralismo

Oggi, anche quel modello sembra esaurito. Il nuovo ordine multipolare è ancora incerto, ma già produce effetti sui rapporti tra Ovest ed Est, dentro la Nato, e persino nella guida politica dell’Unione Europea, sempre più sbilanciata sull’asse anglo-francese.

L’Italia, però, resta Paese-ponte nel Mediterraneo. E da questa posizione può ripartire una proposta economica nuova: basata su un lavoro più equamente remunerato, una finanza al servizio dello sviluppo diffuso, un settore pubblico protagonista, anche nella politica monetaria, e una sostenibilità ambientale non sacrificata all’interesse di pochi.

In questo quadro, il governo Draghi ha rappresentato un primo punto di svolta. Tocca ora alla politica – e ai cattolici che si riconoscono nel popolarismo – proseguire quell’opera con visione e responsabilità, a prescindere dagli alternarsi delle maggioranze.