In un recente saggio in memoria dell’Ing. Gino Martinoli , cofondatore e Presidente per lunghi anni del Censis, il Presidente Giuseppe De Rita si misura con un amarcord personale, intrecciato alla vicenda dell’abbrivio del sistema scolastico nazionale a partire dall’immediato dopoguerra, incluse le scelte di indirizzo da compiere, il modello da disegnare e le proiezioni di un futuro prevedibile, interconnesso a maglie larghe nell’ordito e nella trama della crescita del Paese, tra linee politiche, identità culturali e sociali, dibattiti, orientamenti, opzioni caratterizzanti sul piano identitario e in chiave di lettura denotativa e connotativa.
Lo fa con la consueta maestria nel padroneggiamento degli eventi e dei contesti, delle derive di sviluppo e delle macroanalisi a cui ci ha abituato, nella interconnessione tra presenza e contributo personale alla scrittura di quella storia e capacità ermeneutico-interpretativa che emergono già in sede Svimez e poi fino ai giorni nostri nei Rapporti annuali del CENSIS.
Una riflessione fondamentale e preziosa per conoscere la Storia del Paese e – nello specifico- il prender corpo del sistema scolastico nazionale, visto da chi ha vissuto quella stagione embrionale e la rivisita oggi con lo sguardo indagatore di chi vuole rileggerla, con una marcata capacità di far sintesi di un confronto politico e ideologico da cui scaturisce un’opzione prevalente, finanche riconoscendo in modo onesto una sconfitta del proprio punto di vista di allora ma utile anche per comprendere la realtà del presente nei suoi chiaroscuri e nelle sue contraddizioni. Ciò in un momento particolarmente critico qual è il presente condizionato dalla pandemia che mette a nudo elementi di criticità e difficoltà gestionali, organizzative e persino di senso rispetto al ruolo e al peso della scuola nella società e nella cultura contemporanea: per chi ha vissuto da coprotagonista gli anni delle scelte decisive sui ‘problemi formativi’, “vederli ridotti a cumuli di parole parlate e scritte senza orientamento è cosa che fa male. “.
Parte dunque De Rita nella sua analisi con il piglio che gli è consueto, egli è uomo di mediazione e incline all’osservazione e all’ascolto ma non si perde in una disamina astratta: furono due le grandi linee di pensiero e di azione che tracciarono il dibattito a cavallo degli anni ‘55/’60, nell’alveo del grande contenitore della visione “scolastica” della DC (come perno del Governo del Paese) anche nei suoi addentellati di collateralismo associativo e sindacale: “da una parte quella, poi risultata vincitrice, che riteneva indispensabile, per il progresso culturale di tutti, sviluppare un sistema di più anni di istruzione scolastica, con dietro la propulsione del collateralismo categoriale sopra richiamato e poi del sindacalismo confederale; dall’altra parte una minoranza, risultata alla fine perdente, che riteneva giusto e necessario un collegamento fra attività formativa e sbocco occupazionale, fra sistema scolastico e strutture economiche e sociali. De Rita si posiziona nel secondo contenitore mentre il primo – rivisitando gli sviluppi del nostro sistema scolastico (fortemente ispirato allora dall’AIMC e dalla sua Presidente Maria Badaloni, ma sostenuta in Parlamento e negli atti di Governo da Gonella negli anni 50, Medici dal ’58, poi da Pastore che puntava sulla scuola come motore di crescita del Sud soprattutto per i centri di formazione aziendale) lo riassume nella formula – risultata preponderante fino ad oggi- della “formazione integrale della persona umana” (“l’uomo per l’uomo”) ma soprattutto della “scolarizzazione a oltranza” (fattispecie che ritroviamo aggiornata nella lifelong education come tendenza globale secondo una lettura di pedagogia comparata).
Non tace De Rita il contributo dialettico offerto dalla sinistra che, ispirata anch’essa alla difesa dell’autonomia formativa, “si scatenò” contro una capitalistica “formazione di semilavorati per l’industria” (De Rita cita ad es. la posizione di Rossana Rossanda e del Pci, la loro battaglia per la difesa dell’autonomia del sistema formativo rispetto a una possibile sua strumentalizzazione da parte del mercato).
Come parte perdente di quel dibattito il Presidente CENSIS rivendica tuttavia il diritto ad una revisione storica delle scelte allora vincenti che generarono un sistema scolastico “puramente ‘autopropulsivo’, senza riferimenti esterni e senza stimoli socialmente innovativi: un corpaccione pesante e stanco, che presume di avere il diritto di essere sostenuto e ampliato solo perché esiste, non perché serve a qualcosa”. Lo stesso ’68 , con la liberalizzazione agli accessi universitari, la distruzione dei criteri di qualità e di merito nei processi formativi, le teorie pedagogiche della facilitazione – pur nella violenta contestazione del sistema – contribuì a generare una deriva di logica autoreferenziale che De Rita così riassume: “Fare politica scolastica senza connessione con lo sviluppo economico si riduce all’indistinta spinta a fare più spesa per la scuola”.
Quella spinta autopropulsiva su cui De Rita insiste a lungo ci ha consegnato un sistema scolastico “di grande consistenza”, gonfiato in alto più che a piramide come era stato pensato nella Riforma Gentile (ripresa e difesa nella sua logica orientativa da un attento osservatore come il Prof. Giulio Sapelli nel suo intervento nello streaming del 19/3 a commento del saggio), nell’utenza, negli organici, nel precariato, nella complessa dinamica organizzativa, nelle disfunzioni centrali e periferiche degli apparati.
Va osservato che quella stagione di autopropulsione del sistema scolastico produsse anche effetti positivi: a cominciare da una poderosa campagna di lotta all’analfabetismo, e quindi di alfabetizzazione culturale (“a partire dal sapere leggere, scrivere e far di conto”) oltre ad una serie di provvedimenti legislativi in cui si declinano le linee evolutive del sistema, dalla legge istitutiva della Scuola materna Statale nel 1968 (fortemente voluta da Aldo Moro fino a provocare una crisi di Governo) , all’introduzione de tempo pieno (820/1971), ai cd. “decreti delegati” del 1974 in tema di organi collegiali, sperimentazione, aggiornamento, profili del personale scolastico, al DRP 616/1977 sul trasferimento di competenze scolastiche alle Regioni, alla legge 517/1977 sull’integrazione degli alunni disabili e sulla programmazione educativa, fino alla norma attuativa dell’autonomia scolastica (legge 59/1997 e DPR 275/1999). Per ricordare passaggi fondamentali.
Questa legislazione di graduale riforma del sistema scolastico può essere considerata – secondo l’analisi di De Rita – come un affinamento della logica autoreferenziale ed autopropulsiva, tuttavia ha contribuito alla crescita e alla caratterizzazione degli ordinamenti scolastici, i cui effetti si riverberano ancora al presente.
Ne’ va dimenticato che analogamente, studiando i sistemi scolastici dei Paesi della C.E. secondo un approccio comparativo, si deducono spinte propulsive al cambiamento: nei modelli decentrati verso un “common core” ad indirizzo nazionale, in quelli centralistici con una deriva incline all’autonomia degli istituti e all’interrelazione con gli enti autarchici del territorio.
Tuttavia occorre trovare argomentazioni convincenti per confutare la tesi del Presidente CENSIS secondo cui questo agglomerato di norme e tentativi di riforma si sia in sostanza risolta in una logica tutta interna al sistema, senza curare le ricadute possibili nei cfr. del mercato del lavoro: scuola implementata e aperta al sociale ma fine a se stessa quanto al concreto valore da attribuire al titolo di studio in relazione alle opportunità lavorative. Analisi forse spietata ma scaltrita e attuale, ove si consideri la scuola una sorta di corpo esterno e ininfluente al sistema produttivo, che nel tempo ha modificato i concetti stessi di ceto medio e borghesia, distinguendo in modo netto il piano culturale da quello economico.
Un argomento peraltro ripreso in modo quasi singolare dal Presidente Draghi che ha parlato di rivalutazione necessaria degli istituti tecnici e professionali. Nella bolla gonfiata dell’autopropulsione del sistema occorre un dosaggio degli indirizzi di studio in funzione delle esigenze di crescita del Paese.
Ma temi come il diritto allo studio, l’uguaglianza delle opportunità di partenza e di arrivo, la libertà di insegnamento, l’inclusione dei fragili, le scuole in ospedale, la personalizzazione dei progetti educativi, la promozione degli stili di vita, la corresponsabilizzazione delle funzioni interne al sistema, il rapporto con le famiglie e il territorio hanno affinato una sensibilità sociale dall’esterno verso l’interno del sistema.
La “disperazione del presente” – come la definisce De Rita- si trova negli effetti distorti e negli avvitamenti senza esito delle logiche di programmazione e organizzazione scolastica: troppo spesso ad es. l’autonomia scolastica si risolve in una implementazione di una burocrazia che prolifera in periferia e si aggiunge a quella del centro, nel tempo preponderante destinato a riunioni autoreferenziali e incalzanti che producono “paralisi” o rallentamenti anziché semplificazione, in una logica dirigista da caserma.
Torneremo presto su questo argomento. Ma la politica di questi ultimi decenni, della renziana “buona scuola” autodefinitasi tale e dei suoi presidi sceriffi poi comandanti della nave (secondo la Ministra Azzolina) , della DAD alternativa alla didattica in presenza e di tutti i suoi portati tecnologici (a cominciare dalla esasperante enfasi sul cd. “registro digitale” di classe) ha spostato l’attenzione dalla didattica in classe ai suoi corollari, generando una burocrazia fuorviante e smisurata, con una produzione biblica di circolari e nuove istruzioni, fino a diventare asfissiante e – appunto – “disperata”, avendo perso per strada i fondamentali che la qualificano e allontanandosi sempre più da quello sbocco verso il mercato del lavoro che era un’idea di De Rita e sta diventando un dramma sociale che costringe le giovani generazioni ad una sorta di “sospensione”- dopo gli studi – nella realizzazione di un progetto di vita.