UNA TARGA PER PASOLINI SULLA STESSA VIA DOVE ABITAVA L’EX MINISTRO GUI: ECCO LE RAGIONI PER COMMEMORARE ENTRAMBI.

 

L’invettiva del Poeta contro la DC. Moro reagì, nel 1977, con durezza: “Non ci lasceremo processare sulle piazze”. Gui fu coinvolto ingiustamente, per essere poi assolto, nello scandalo Lockheed. La logica del processo – di quel tipo di processo politico – alimentò anche il terrorismo. Se Pasolini aveva ragione a protestare contro il disordine del potere, anche Gui si poteva fregiare di un’analoga ragione per aver servito con onore le istituzioni democratiche, piegando il potere alla compostezza e al rigore della politica, secondo la limpida lezione morotea. Avevano ragione entrambi, dunque entrambi, sulla stessa via, andrebbero ricordati.

 

Lucio D’Ubaldo

 

Dietro la basilica dei Santi Pietro e Paolo, imponente edificio sacro dell’Eur, che offre lo spettacolo della cupola più alta di Roma dopo quella vaticana di San Pietro e quella dei teatini di Sant’Andrea della Valle, si diparte in rettilineo una strada residenziale lunga qualche centinaio di metri sul lato ovest della chiesa, e proprio sul bordo alto dell’ampio vallone della Magliana attraversato dal Tevere, denominata per un intreccio biblico della toponomastica del luogo via Eufrate (in pratica si congiunge con via Tiberiade e via del Giordano). Qui nel pomeriggio di oggi una pubblica cerimonia organizzata dal Municipio IX, guidato dall’ex deputata ed ex sindacalista (Cgil) Titti Di Salvo, farà da corona alla posa in opera di una targa in ricordo di Pier Paolo Pasolini, per anni residente al civico n. 9, in una sobria ed elegante palazzina del quartiere “ripensato” negli anni ‘50 dal segretario generale dell’Ente Eur, Virgilio Testa.

 

L’iniziativa del Municipio IX rende onore alla figura del più grande poeta civile che l’Italia abbia conosciuto dopo Giosué Carducci. Friulano di nascita, visse a lungo con la madre nella casa di Via Eufrate, fino alla sua tragica morte nel 1975 a seguito di una selvaggia aggressione all’idroscalo di Ostia. Un suo conterraneo, don David Maria Turoldo, padre servita ed egli stesso poeta, ne parlava come di “uno degli uomini più tormentati che siano mai esistiti, aveva la rabbia di non poter credere nella Chiesa, era un cattolico con la rabbia addosso, la sua matrice era cattolica; sua madre, la sua fede, la sua cultura erano cattoliche. E soprattutto, oltre che essere di cultura cattolica, era uomo di tremenda fede, inquietudine, implacabilità. Lo stesso modo di accusare: soltanto un furioso credente come lui poteva arrivare a quello”. E la sua invettiva, a un certo punto, si condensò nell’attacco virulento alla DC, per la quale chiese il processo sulle piazze.

 

Non fu la pagina più bella della sua sterminata pubblicistica, essendo stato per altro, da giovane, un estimatore della sinistra democristiana. Ma non è questo ciò che conta. L’aspetto critico sta nel fatto che l’invocazione del processo dette modo alla sinistra più radicale e violenta, formata al dogmatismo rivoluzionario del post sessantotto, di rafforzarsi nelle ragioni etiche di un attacco al partito cardine della democrazia italiana. Al culmine di quella stagione, impregnata di odio e connivenze misteriose, ci fu il rapimento e l’uccisione del leader indiscusso della DC: Aldo Moro. Un anno prima della tragedia, nel 1977, fu lui ad alzarsi nell’Aula di Montecitorio  e pronunciare un memorabile discorso in risposta alla propaganda avversa, prendendo di petto la teoria della liquidazione della DC per via pseudo giudiziaria: “Noi – disse Moro quasi in tono di sfida – non ci lasceremo processare sulle pubbliche piazze”.

 

Ora, la storia ci ricorda che quel discorso aveva ad oggetto la difesa di Luigi Gui, eminente figura della DC, ministro della Pubblica Istruzione nei momenti caldi del ’68, da sempre vicino ad Aldo Moro, messo nel mirino della contestazione sul “caso Lokheed” insieme al socialdemocratico Mario Tanassi. L’ipotesi di reato riguardava il pagamento di tangenti a seguito dell’acquisto di alcuni aerei Hercules-130. La vittima più illustre dello scandalo fu Giovanni Leone, costretto il 15 giugno del 1978 alle dimissioni da Presidente della Repubblica: era estraneo ai fatti e molti anni dopo gli furono tributate le scuse da parte dei Radicali, artefici principali, in concorso con il PCI, della battaglia contro la DC. Rinviato a giudizio, anche Gui fu scagionato dagli addebiti con sentenza della Corte costituzionale del 15 marzo 1979.

 

Perché questo excursus sulla vicenda Lockheed? Perché Luigi Gui, per ironia della sorte, abitava a pochi passi da Pasolini, sulla stessa via Eufrate, al civico 33. Quando tutto si concluse, portando a piena luce l’innocenza di Gui, Pasolini era scomparso da tre anni e mezzo. Non sappiamo, né possiamo immaginarlo, cosa avrebbe potuto dire il Poeta su quella sentenza di assoluzione che restituiva Gui alla dignità della sua lunga ed intensa opera di politico. Certo è però che oggi, a distanza di vari decenni, con alle spalle gli errori e gli orrori di un moralismo inquisitorio che finì per alimentare la violenza terroristica, l’opportunità di una seria riflessione fa capolino tra le pieghe di una cerimonia in onore di Pasolini, sulla stessa via dove appunto abitava Gui. Ebbene, approfittando di questa felice casualità di geografia urbana, non sarebbe giusto ricordare entrambi, con una targa capace di rimettere a posto i tasselli della memoria e suscitare, in sintesi, un dato evocativo di una buona istanza di riconciliazione?

 

Nel tempo ci si è adoperati, atttreverso opportune scelte simboliche, affinché fossero ricomposte le fratture del periodo più angoscioso dell’Italia delle stragi e del terrorismo. Non sono mancati i gesti che dovrebbero destare, guardando a ritroso, il desiderio di riconciliazione tra “rossi e neri”, sciaguratamente affratellati nelle opposte movenze di una hibrys rivoluzionaria. Avevano torto entrambi. Invece, se Pasolini aveva ragione a protestare contro il disordine del potere, anche Gui si poteva fregiare di un’analoga ragione per aver servito con onore le istituzioni democratiche, piegando il potere alla compostezza e al rigore della politica, secondo la limpida lezione morotea. Avevano ragione entrambi, dunque entrambi, sulla stessa via, andrebbero ricordati. Quale altra migliore riconciliazione?