Articolo già apparso sulle pagine della rivista il Mulino a firma di Nicola Pedrazzi
Giorni strani questi, per gli attori politici ma soprattutto per noi spettatori. L’avevano davanti, eppure la spettacolare crisi di governo che a un anno dal film “Diciotti” ha ipnotizzato i nostri devices in vacanza ci è sembrata andare oltre i confini del plausibile. In poche ore abbiamo assistito all’autogoal di un leader che si raccontava abilissimo, al ritorno di un leader che si raccontava finito, all’inversione a U di un movimento che si raccontava nato per prendere il 100%, e che invece ha scoperto il parlamentarismo e le competenze di un capo di Stato che aveva minacciato di “impeachment” (?) all’avvio della legislatura, non più tardi di 15 mesi fa.
Da appassionati di House of Cards, dopo il colpo di scena abbiamo riavvolto il nastro: per testare la sceneggiatura e capire quanto fosse credibile, per chiederci come mai non siamo stati in grado di prevederla. Ci siamo riletti lo sciacallaggio social di 5 Stelle e Lega (l’ordine di tempo conta) sul caso Bibbiano per tranquillizzarci sul fatto che un accordo con il Pd no, non era nell’aria; ci siamo riascoltati la relazione del presidente Conte sul “Rubligate” che ha coinvolto la Lega, senza che Matteo Salvini venisse obbligato a presenziare in aula; ci siamo re-inflitti la soddisfazione di Di Maio per la negata autorizzazione a procedere per il ministro degli Interni decisa dagli iscritti alla piattaforma Rousseau (2 febbraio 2019); alcuni di noi, per essere maggiormente certi di non essere proprio stupidi, si sono riascoltati il “no ai caminetti” di Renzi (5 marzo 2018), risalendo la corrente fino allo streaming tra Renzi e Grillo (19 febbraio 2014) e prima ancora a quello tra Bersani-Letta e Crimi-Lombardi (ne è passata di acqua sotto i ponti, dal “Siamo noi le parti sociali…”, era il 27 marzo 2013).
È giunto il momento di chiedersi se questo “storico del simultaneo” di cui infarciamo i nostri articoletti (l’ho appena fatto anche io) sia utile alla ricostruzione, alla comprensione e al racconto dello svolgersi del presente, e in particolare all’analisi dei fenomeni politici. La risposta ovvia è che non lo è, per la stessa ragione per cui un veterinario non migliora la sua conoscenza del comportamento animale andando tutti i giorni al circo (né un lettore la migliorerebbe, leggendo i suoi resoconti). Come ricordato da Mario Ricciardi nei giorni scorsi, il vizio in cui siamo incastrati è quello di commentare (e quindi moltiplicare) soltanto la dimensione spettacolare del fatto politico, consentendo e incentivando gli attori politici a non fornirci altro. Inseguire le parole di Grillo senza fargli domande sulla srl che gli scrive i post, confondere la popolarità del Bersani-Crozza con il consenso per il Bersani politico e riportare fedelmente le parole di un ministro degli Interni che legge un avviso di garanzia in diretta Fb bevendo Fanta nel suo ufficio senza riportare la notizia che un ministro degli Interni sta leggendo un avviso di garanzia in diretta Fb bevendo Fanta nel suo ufficio, sono solo tre errori random che mi vengono in mente quando penso alle recenti responsabilità del giornalismo italiano. Eppure, in questi giorni di politainment puro abbiamo appreso una lezione fondamentale: per capire le prospettive politiche del “Paese reale” avremmo fatto meglio a tralasciare il gentismo e a osservarlo con più attenzione nella dignità della sua rappresentazione istituzionale.
Nei mai finiti anni del tramonto berlusconiano – le culture profonde sopravvivono ai suoi interpreti –, la diffusione dei social network e il dilagare del sentimento “anti-casta” hanno spinto i politici di ogni ordine e grado a travestirsi da uomo della strada: gli strateghi del M5S hanno capito prima e capitalizzato meglio la congiuntura, ma il contagio non ha risparmiato nessuno, nemmeno Mario Monti con il suo cagnetto adottato. Attori e commentatori politici hanno speso gli ultimi quindici anni a rincorrere il presunto “Paese reale” sin nelle pieghe della volgarità e si sono dimenticati del fatto che non esiste una rappresentazione più nobile, plurale e in fin dei conti veritiera dell’Italia di quella restituita dalla metafora parlamentare. Se, nell’arco di 24 ore, Giuseppe Conte ci è quasi sembrato un presidente, Matteo Salvini un politico scadente e Matteo Renzi un leader decisivo è perché, per una volta dall’inizio di questa terribile legislatura, abbiamo misurato la loro performance politica all’interno delle istituzioni che rendono degne di nota le loro parole: in un’aula parlamentare in cui, al netto dei limiti di ciascuno, il presidente del Consiglio che fa il presidente del Consiglio ha senso, il ministro degli Interni che fa lo youtuber da spiaggia no. Un’aula in cui, piaccia o non piaccia, Matteo Renzi può parlare a nome del suo partito, e può utilizzare l’oggettività di questa forza per ribaltare il tavolo e disegnare uno scenario politico nuovo – poco importa che la maggioranza degli italiani lo ritenga una persona antipatica, ammesso che sia davvero così. Un’aula in cui gli esseri umani rimangono e a volte si palesano per quello che sono – talvolta a prescindere, purtroppo, dalle loro responsabilità di rappresentanti – ma un’aula che garantisce un diritto di parola che include il dovere dell’ascolto, che tutela la minoranza dal dileggio della maggioranza e viceversa (visto che in Parlamento tanto quanto nel Paese la Lega è minoranza); un luogo in cui, nonostante le cialtronerie che non ci facciamo mai mancare, è tutto sommato ancora preferibile andare preparati e pensare prima di aprire bocca, perché non puoi chiedere agli stenografi di cancellare il post e perché qualcuno potrebbe, chissà, risponderti dal vivo e nel merito. Accade così, per il peso e le regole di un contesto che nonostante la fine dei partiti come luoghi di cultura politica sta resistendo alle profanazioni della comunicazione, che sventolare il rosario diventi, banalmente, una boiata pazzesca, e non il colpo di genio di un web advisor senza scrupoli cui è stato dato mandato di rosicchiare consenso al Sud durante l’estate.