Voglia di futuro

Riportiamo un ampio stralcio dell’editoriale del numero in uscita di “Dialoghi”, trimestrale dell’Azione cattolica, a firma Pina De Simone

Sarà la primavera con i suoi colori e le sue giornate più lunghe, sarà il tepore del sole che finalmente si fa sentire, saranno i tanti giorni passati in casa davanti al computer, le restrizioni così a lungo vissute, l’ansia che ci ha accompagnato; ma c’è nell’aria una voglia di uscire, di tornare a incontrarsi, di respirare; di respirare persino la confusione delle strade, i rumori della vita quotidiana.

E c’è un’emozione particolare nel ritrovarsi, nel tornare a fare lezione in presenza, nel riprendere contatto con il proprio ufficio, nel viaggiare in treno dopo tanti mesi, nell’acquistare un abito pensando a quando lo si indosserà, nell’andare al cinema, nel mangiare una pizza seduti a un tavolo che non è quello di casa propria, in mezzo ad altri. Una normalità perduta e pian piano ritrovata. Gesti quotidiani e situazioni di interrelazione che si vivono ancora con preoccupazione, ma che hanno il sapore di una libertà recuperata, che vorremmo non dover lasciare più. E, d’altra parte, come potremmo non immaginare che tutto quello che abbiamo vissuto – la paura, la sofferenza, la morte delle persone care, la paralisi di attività, l’impoverimento di tanti – possa finalmente avere fine? Le riaperture su cui tanto si insiste in questi giorni – vessillo di una propaganda politica senza fine, mantra ripetuto ad ogni passo – hanno una forza che è simbolica oltre che economica o funzionale. Riaprire è riprendere a vivere, “riprendersi la vita” come qualcuno ama dire. È alzare finalmente lo sguardo, guardare avanti, ricominciare a immaginare, a progettare, ritrovare il gusto di proiettarsi verso il futuro. Riaprire è pensare che il futuro sia nuovamente possibile.

Nel tempo della pandemia, il futuro è apparso come soffocato. Matrimoni rinviati, attività sospese o addirittura chiuse, percorsi di studio e progetti costretti a rimodularsi in un’assoluta incertezza. Un tempo sospeso che ci ha consegnato a una lentezza dimenticata e a una profondità possibile, ma che ha visto assottigliarsi la proiezione nel futuro. E ora, è proprio il futuro che si riprende la scena: un desiderio incalzante di futuro.

Anche la politica torna a parlare di futuro: di investimenti, ripresa, modernizzazione, digitalizzazione, semplificazione. Come se si dovesse spiccare la corsa in avanti: con decisione e rapidità. Ora o mai più. E i fondi stanziati dall’Europa cominciano ad essere percepiti finalmente non come un semplice sostegno alla crisi – uno strumento di ripristino – quanto piuttosto come un investimento per il futuro, per le giovani generazioni, per costruire il mondo che verrà.
E poi, ci sono i vaccini con cui «l’Italia rinasce con un fiore». Tra ansie, diffidenze e polemiche, ma anche tra l’emozione di chi finalmente potrà tornare a vedere i figli lontani, a muoversi, a uscire, a sperare di poter combattere il virus, di lasciarsi alle spalle la devastazione di cui esso è stato capace.
L’orizzonte del futuro, la voglia insistente e intensa di futuro, domina queste giornate primaverili in cui lavoriamo alla chiusura del numero 2 di «Dialoghi».

Ma a riportarci indietro, invece, ci sono voci e immagini di situazioni che pensavamo non più ripetibili con così tanta drammaticità. I morti bruciati per strada in India, neppure più contati per il dilagare dell’epidemia e l’assenza di soccorso: una povertà radicale, nella mancanza di ossigeno e nella negazione di ogni ragionevole diritto. E poi la violenza nuovamente riesplosa tra palestinesi e israeliani, a Gerusalemme, dove le tensioni sono endemiche, pur nell’intreccio inestricabile di culture e tradizioni, epicentro di conflitti già molte volte in passato, ma anche luogo senza la cui pacificazione non ci sarà pace nel mondo.
E poi ci sono gli scontri, più o meno “diplomatici”, per il controllo delle aree di pesca tra la Francia e la Gran Bretagna e tra l’Italia e la Tunisia. E i naufragi, che ormai non sconvolgono neppure più, con il loro carico di morte; i barconi e i migranti sempre più disperati e sempre più “bambini”, con un’età che continua ad abbassarsi: quei migranti che nessuno vuole e che si discute all’infinito su come “ricollocare”.

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