2021: in che modo (ci) investiamo per il nostro Paese?

Un dialogo a tre voci per capire come possiamo rendere il 2021 l'anno della ripartenza Carlo BORGOMEO Giacomo COSTA Giovanni FOSTI Maria Luisa PARMIGIANI

Articolo pubblicato sulle pagine della Rivista Aggiornamenti Sociali 

Così è verosimile che il 2021 possa essere davvero l’anno in cui come Paese avremo la possibilità di ripartire, una possibilità che siamo chiamati a cogliere e sfruttare appieno. In che direzione muoverci, visto che la speranza non elimina l’incertezza?

Per contribuire a questa riflessione ci sembra utile metterci in ascolto dei responsabili di tre Fondazioni, che, pur con le loro diversità, hanno la finalità di investire sul sociale, cioè di sostenere iniziative che producano un ritorno per la collettività invece di un dividendo per chi fornisce il capitale. Per svolgere bene il loro compito, queste istituzioni devono dotarsi di sensori capaci di cogliere che cosa si muove nella realtà sociale e quali sono i problemi più urgenti, ma anche di riconoscere i soggetti portatori di una autentica capacità innovativa. Viste in un’altra prospettiva, le loro priorità operative rappresentano una lettura aggiornata della società italiana che può servire da ispirazione per una molteplicità di soggetti, dal Terzo settore alla Pubblica amministrazione e alla politica locale e nazionale, anche in vista di stimolare nuovi dialoghi. Così ai rappresentanti delle tre Fondazioni abbiamo chiesto suggerimenti su che cosa scommettere oggi per avere un “ritorno sociale”, su quali siano le novità più promettenti da accompagnare, e anche su come spendere bene le ingenti risorse in arrivo dall’Europa.

Dalle loro risposte emergono segnali incoraggianti: nel tessuto della nostra società le risorse ci sono. Il problema, oggi più cruciale che mai, è non disperdere le potenzialità, delle persone ma soprattutto delle comunità, superando ad esempio il vizio ormai incancrenito della frammentazione: che cosa può aiutare a tenere insieme pezzi diversi? Come attivare e valorizzare le risorse di persone e comunità che spesso sono pensate come beneficiarie più che protagoniste degli interventi sociali?

La riflessione si salda qui con quella sul rinnovamento, radicale e non più procrastinabile, del sistema di welfare, ancora più cruciale in un momento in cui registriamo un ulteriore aumento della povertà e delle disuguaglianze. L’esigenza che nessuno sia lasciato indietro e i valori che hanno ispirato la costruzione del nostro sistema di welfare rimangono un patrimonio fondamentale, anche perché sono radicati nella Costituzione repubblicana. Tuttavia l’accelerazione dei processi prodotta dalla pandemia rende ancora più evidente che il sistema, così come è configurato adesso, non regge più: basta pensare al riparto delle competenze tra amministrazioni centrali e locali (dalla gestione della sanità a quella dei ristori e della lotta alla povertà), o a una effettiva integrazione delle capacità e delle risorse delle comunità e del Terzo settore. Ci sono esperienze positive già consolidate e molte sperimentazioni in corso, a cui cerchiamo di dare spazio sulle pagine di Aggiornamenti Sociali. Le idee non mancano, ma è arrivato il momento di procedere con maggior decisione.

In radice, emerge un nodo da affrontare innanzi tutto a livello culturale, rivisitando precomprensioni e innovando modelli e paradigmi: il rapporto tra il pubblico e il privato, entrambi sempre meno monolitici e più variegati che in passato, o forse meglio la definizione stessa di pubblico, da intendersi sempre meno come sinonimo di statale o riferito all’insieme delle Pubbliche amministrazioni. Da un lato aumentano le forme ibride, dall’altro emerge il protagonismo crescente di soggetti radicati nel tessuto sociale e operanti sulla base di modalità di regolazione che non passano dall’autorità (cioè dallo Stato) o dal prezzo (cioè dal mercato). Come si collocano rispetto alla tradizionale dicotomia pubblico-privato? Non sono piuttosto la spia del fatto che è ormai inadeguata? Certo, lo Stato non è estraneo alla loro azione, ma è chiamato a ricoprire, nella chiave della sussidiarietà, un ruolo di garante delle condizioni istituzionali perché i processi sociali possano svilupparsi in autonomia, ma garantendo la partecipazione degli utenti e la tutela dei beni in questione. Magari utilizzando anche le potenzialità di nuove tecnologie che permettono l’emergere di soggetti collettivi, persino a scala globale, così come di rinnovare le forme della mutualità.

Forse non è più un lusso pensare che, accanto agli interessi di parte (il “privato”) – che nessuno nega, sarebbe ingenuo – e al loro bisogno di un’autorità di regolazione (lo Stato, in uno schema che resta di matrice hobbesiana), vi sia anche lo spazio per provare a costruire una qualche forma di progetto comune, “pubblica” nel senso che muove dal riconoscimento di nessi e vincoli già esistenti all’interno della società e per questo può convocare e interrogare gli attori privati così come quelli statali. Probabilmente è questa la vera scommessa del 2021: l’esito della ripartenza dipenderà certo dalle risorse disponibili, ma anche dai paradigmi sulla cui base saremo capaci di progettare il modo di utilizzarle.

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