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mercoledì, Febbraio 12, 2025
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Statuto dei lavoratori, una data ancora storica.

L’artefice fu il ministro del lavoro, Carlo Donat-Cattin. La sua ambizione consisteva nel volere che le istanze dei ceti popolari, nell’architettura amministrativa dello stato democratico, non avessero un ruolo residuale.

Ci sono delle date che lasciano il segno nella storia democratica del nostro paese. Una di queste date è certamente quella del 20 maggio del 1970 quando venne approvato lo Statuto dei Lavoratori. Una pagina, forse la pagina, destinata a cambiare definitivamente il ruolo e la condizione dei lavoratori nel panorama sociale, economico e produttivo del nostro paese. Con un protagonista indiscusso e quasi unico: il Ministro del Lavoro dell’epoca – o meglio, come si definiva lui stesso nel momento in cui ha assunto quel delicato incarico istituzionale, il “Ministro dei lavoratori”- Carlo Donat-Cattin. C’è una frase che rimane scolpita nell’immaginario collettivo nel momento dell’approvazione di quell’atto legislativo e pronunciata dallo stesso Ministro nel dibattito alla Camera: “Abbiamo portato la Costituzione nelle fabbriche”. Uno Statuto, quello dei lavoratori, che passò con l’approvazione delle forze che componevano il governo di centro-sinistra con la strana e singolare astensione del Pci. Uno Statuto che resta, tuttora, una pietra miliare per l’impianto democratico del nostro paese e che, non a caso, non è più stato messo in discussione nei suoi principi costitutivi. Certo, è cambiato radicalmente il mondo del lavoro e, con esso, anche i luoghi concreti della produzione. Ma sul fronte dei diritti, e anche dei doveri dei lavoratori, quella pagina è entrata semplicemente nella storia sindacale e politica italiana.

Ora, c’è un aspetto che qualifica e che fa da sfondo a quella data e che si riassume anche nella concezione politica e culturale riconducibile al leader della ‘sinistra sociale’ democristiana e che in quel momento era alla guida del dicastero del Lavoro. In effetti, la preoccupazione costante di Donat-Cattin di porre “la questione sociale” al centro di ogni indirizzo politico non si risolveva solo nello sforzo di condizionare le scelte di politica economica e salariale ponendosi dal punto di vista dei ceti subalterni: scelte che ebbero conseguenze incalcolabili nel determinare lo sviluppo complessivo della società italiana per le enormi potenzialità di lavoro, di intelligenza, di imprenditorialità diffusa che le classi popolari italiane seppero sprigionare in un paese come l’Italia, privo di materie prime e di capitali e ricco solo di braccia e di intelligenza pratica. La sua ambizione, quella di Donat-Cattin, era più grande: egli voleva che nell’architettura amministrativa dello stato democratico quei ceti e quelle istanze non avessero un ruolo residuale nè meramente aggiuntivo. E quando pervenne alla guida del Ministero del Lavoro non tardò, infatti, a rendersi conto che – sono parole sue – “nell’organizzazione attuale del Governo non esiste un vero e proprio centro di politica sociale. Si è costituito nel tempo un Ministero del Lavoro perché con i sindacati bisognava trattare; vi si è aggiunta la competenza della previdenza sociale perché le lotte dei lavoratori avevano ottenuto alcune norme per la sicurezza della vita e così via. Ma è tutto strumentale da parte delle classi dirigenti verso il lavoro subordinato”.

Era, infatti, ferma intenzione di Donat-Cattin che il dato politico nuovo “doveva consistere nel dare alla politica sociale complessiva un ruolo non più subalterno, ma primario per la vita dello Stato, anche nella sua espressione politica/amministrativa”. Insomma, per Donat-Cattin l’istanza sociale doveva “farsi Stato”. Trovare, cioè, piena ed irreversibile cittadinanza ad ogni livello dell’organizzazione amministrativa e della gestione della cosa pubblica. Il suo radicamento nel sociale si saldava così con le esigenze più mature e moderne dello Stato di diritto. E cioè, una saldatura che riscontriamo non solo nella battaglia per lo “Statuto dei lavoratori”, ma anche nella strenua difesa della legge elettorale proporzionale che, per Donat-Cattin come già per Luigi Sturzo, rappresentava l’unico strumento di emancipazione politica per i ceti popolari, cioè per consentire ad essi di avere, ad ogni livello elettivo e senza mediazioni gerarchiche, i loro “diretti rappresentanti”.

Ma, per fermarsi allo Statuto dei lavoratori, non possiamo – ancora una volta – non sottolineare che si tratta di un passaggio decisivo e qualificante per dare piena attuazione ai principi e ai valori costituzionali. Una pietra miliare, appunto, che costringe i democratici e i riformisti contemporanei a confrontarsi con un documento – e un atto legislativo – che non può essere rivisto o combattuto a suon di referendum o di picconate demagogiche e propagandistiche. E questo per la semplice ragione che lo Statuto dei lavoratori resta un faro che continua ad illuminare la democrazia e la libertà nel nostro paese. Partendo, appunto, dal ruolo professionale e dalle condizioni di vita dei lavoratori.