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mercoledì, Febbraio 12, 2025
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Medio Oriente, cosa faranno gli alleati regionali di Israele?

L’Arabia Saudita cerca il dialogo con Israele, la Giordania gestisce il dissenso, mentre gli Emirati restano fedeli agli Accordi di Abramo: un equilibrio precario. Quale sarà il rapporto con Tel Aviv.

L’oggettivo indebolimento dell’Iran, la cui famosa “mezzaluna sciita” (che pareva sino a prima del 7 ottobre sul punto di concretizzarsi effettivamente controllando così un largo corridoio che dall’oriente iracheno raggiungeva le sponde libanesi e siriane del Mar Mediterraneo) è ora tramontata in seguito alla caduta di Assad e ai duri colpi patiti da Hezbollah ad opera di Israele, consente all’Arabia di rioccupare il centro della scena mediorientale con la ragionevole certezza di non doverlo condividere con gli ayatollah, avversari politici e nemici nella fede.

Il problema di Mohammad bin Salman, detto MBS, ancora in attesa di divenire sovrano ma ormai da anni vero dominus del regno saudita, è ora quello di trovare il modo (nei tempi giusti, che non possono essere immediati ma neppure troppo dilatati) per aderire agli Accordi di Abramo e dunque alla pacificazione definitiva con Israele senza al contempo subire una sorda contestazione interna, che il regime dovrebbe tacitare con la forza per poi dover affrontare le inevitabili ripercussioni negative con gli alleati e con i clienti occidentali e americani in particolare.

Dunque da un lato MBS avrà Trump che degli Accordi è stato il garante e che promette di continuare ad essere un solido alleato ma non più ricattabile sul fronte dell’approvvigionamento energetico, posta l’acquisita autosufficienza petrolifera americana; dall’altro ha una popolazione ostile a Israele, coltivata nel tradizionalismo wahabita ma proprio per questo ancor più legata alla causa palestinese. Conciliare tutte le esigenze non sarà facile, ma diverrà imperativo.

Un altro attore regionale, per quanto di importanza minore, è il Regno di Giordania, riuscito a rimanere ai margini dei sommovimenti avviati dalle Primavere arabe di oltre un decennio fa e anche alle possibili contestazioni popolari interne che pur esistono ma non sono esplose in vera rivolta a fronte della politica di sostanziale alleanza con Israele. 

Davanti alla distruzione perpetrata a Gaza dall’esercito israeliano il sentimento d’odio verso gli ebrei si è rinvigorito e il governo reale deve gestirlo con prudenza, senza eccedere nella repressione del dissenso, anche in considerazione del fatto che fra i suoi 12 milioni di cittadini è assai elevata la quota di quelli con origini palestinesi.

Infine, gli Emirati, ovvero i promotori degli Accordi di Abramo. Terreno d’elezione per multimilionari planetari e affaristi di varia natura, i loro regnanti non hanno, di fatto, una vera e propria opinione pubblica da gestire, una popolazione cui dover in qualche modo rispondere. Per essi la linea è tracciata, ed il ritorno di Trump è un ulteriore ragione per non modificarla. 

Ma anche lì qualche derivata della situazione di estrema tensione nella quale vive la regione si avverte: ad esempio, lo scorso novembre un importante rabbino è stato assassinato. L’omicidio probabilmente è stato eseguito da un gruppo uzbeko collegato con l’Iran, e ciò significa che i legami spesso sotterranei fra i vari movimenti territoriali dell’islamismo radicale travalicano il Levante e all’occorrenza possono colpire, inaspettatamente, anche in luoghi considerati “sicuri” dagli occidentali e dallo stesso stato israeliano. Ma niente è più sicuro, in quella martoriata area del globo.