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L’odissea di Follini racconta la storia di Vittorio e la parabola del Paese

Riportiamo di seguito la prima parte della recensione dell’ultimo libro di Follini (“Beneficio d’inventario”, Neri Pozza) scritta dal Andrea Monda, direttore del quotidiano pubblicato nella Citta del Vaticano,

Libro nel libro, la cosiddetta “Telemachia” è quella parte dell’Odissea, i primi quattro libri, in cui si racconta l’assenza di Ulisse da Itaca vista e vissuta dal figlio Telemaco, il «figlio di colui che combatte lontano». Figlio di un padre mai conosciuto, il giovane principe si mette alla ricerca di tracce paterne e parte per andare a parlare con i vecchi amici del padre, da Nestore a Menelao. È questa la prima suggestione che penetra nell’animo del lettore mentre si immerge nella decifrazione del nuovo romanzo di Marco Follini Beneficio d’inventario (Milano, Neri Pozza, 2025, pagine 191, euro 18): la storia qui raccontata assomiglia infatti proprio ad una “Telemachia”. Il protagonista quindi non è Marco/Telemaco ma il padre Vittorio che, proprio come Ulisse, ad un certo punto viene risucchiato suo malgrado in una guerra e si trova costretto ad imbracciare il fucile e a salire sulle montagne per unirsi alla Resistenza.

In un sistema di scatole cinesi anche il riluttante Vittorio è a sua volta figlio di un militare che è stato catturato e imprigionato in Texas e tornerà dagli Usa solo al termine della guerra e qui spunta l’altro grande protagonista del romanzo, oltre al duo padre/figlio: l’America. Per il partigiano Vittorio l’America è la nazione che sacrificando i suoi figli è venuta a liberare Paesi lontani, anche molto lontani come l’Italia. Agli italiani di quella generazione, schiacciati dal passato, l’America affascina perché appare come portatrice di futuro: «L’America incarnava soprattutto, almeno agli occhi di mio padre, un’idea di futuro. Sembrava (ed era) sempre un passo più avanti. Ci sollecitava a correre, anticipava le nostre tendenze, ci dava appuntamento a un crocevia più lontano. In una parola, era il progresso» (pagina 57).

Nell’ultima pagina del libro c’è scritto, come in ogni volume che viene pubblicato, che «il presente libro è stato stampato nel mese di febbraio 2025» e viene automatico da chiedersi cosa pensava l’autore mentre finiva di scrivere queste pagine di fronte agli ultimi stravolgimenti che stanno agitando le istituzioni statunitensi e quindi quelle mondiali; se insomma l’evoluzione convulsa che da anni il popolo e la politica Usa stanno vivendo ha in qualche modo condizionato la scrittura del romanzo. Perché per certi versi questo romanzo è anche una dichiarazione d’amore per il Paese americano, un amore che però si avverte (da Marco soprattutto, perché invece Vittorio il sentimento verso l’America non lo ha mai messo in discussione) come un amore ferito, tradito. Il punto di massima crisi del rapporto tra gli Usa e l’Italia coincide senz’altro con il dramma del rapimento, sequestro e poi uccisione di Aldo Moro, uno dei personaggi principali che si muovono dentro la vicenda raccontata, con mano sapiente e raffinata, dal politico e giornalista Marco Follini.

Narrando la storia di papà Vittorio, l’autore racconta tutta la parabola del Paese concentrandosi inevitabilmente su quella che fu chiamata la cosiddetta “Prima Repubblica”. Ma per farlo deve partire dagli anni della guerra. Follini, Marco, classe ‘54, fa come quel bambino de L’albero della vita di Terrence Malick che chiede alla mamma che lo sta mettendo a letto: «Mi racconti qualcosa di prima dei ricordi?». C’è qualcosa infatti, che non riveleremo perché questo libro è a suo modo anche un giallo, che spinge Marco/Telemaco sulle tracce del padre per decifrare un mistero, scandagliando e così rivedendo con attenzione la vicenda umana di Vittorio/Ulisse che si concluderà nell’estate del 2003, circa un decennio dopo il drammatico passaggio ad una nuova fase della storia repubblicana che non avverrà con dolce gradualità ma con bruschi strattonamenti come sottolinea nitidamente Follini: «La sua generazione aveva pensato di passare il testimone come fosse una nobile concessione verso giovani a cui veniva insegnato come stare al mondo. E invece quel testimone veniva ora strappato dai figli con poco garbo in nome di un progresso che concedeva ben poco all’istinto conservatorio e alle buone maniere dei loro padri. In quella accelerazione della storia mio padre sembrava trovarsi a disagio» (pagina 177).

Un omaggio al padre e alla sua generazione che si affacciava nel mondo, dopo l’orrore della guerra, in un periodo storico contraddistinto da molto illusioni e da qualche ingenuità, «un tempo da cui l’indiscrezione sembrava messa al bando (…) non era ancora il tempo di tutte le esibizioni, ostentazioni, esagerazioni che sarebbero state in un certo senso la colonna sonora degli anni seguenti» (pagina 48). Dopo gli anni eccessivi del fascismo e prima di quelli esagerati della seconda e terza repubblica quella di Vittorio è stata l’epoca della discrezione, del garbo, in una parola, della misura. Che non era solo una posa ma la capacità, di quella generazione, di incarnare «un certo spirito del tempo. Non fosse altro per aver sfiorato in gioventù stagioni assai più inclementi di quelle che stavano predisponendo a vantaggio dei propri figli» (pagina 85).

La mitezza, il modo defilato e dimesso con cui Vittorio, contestato in questo dal figlio, viveva il suo impegno politico nasceva dal «debito che quella generazione aveva con la sua storia. Il regime e poi la guerra s’erano presi i loro anni migliori». La misura scaturiva da quelle ferite ma non solo, c’era anche un motivo positivo legato al primato della politica: erano quelli gli anni della «religione della politica» scrive Follini, e chi si impegnava erano per lo più «persone lontane da ogni forma di fanatismo, da ogni culto dogmatico delle proprie ragioni. Erano tutti figli del primato della politica» (pagina 78). Una politica intesa come fatto umano, cioè complesso, in cui inevitabilmente «il bene e il male risultano sempre strettamente intrecciati», un mondo che «mescola il grano e il loglio e non si prova neppure a cercare di separarli con un taglio troppo netto. Così accade spesso che le cause migliori si facciano largo attraverso espedienti, complicità, perfino patti scellerati. E che il patto col diavolo risulti a volte l’unico modo per far progredire una causa che si pretende angelica o quasi. Paradossi di quella stagione, e forse di tutte le altre. Ma questa, per l’appunto, è la politica» (pagina 84).

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