Papa Francesco ci ha lasciato in un modo molto coerente con il senso del suo pontificato. Già con la scelta del nome aveva risvegliato in molti cuori una fede tiepidamente presente. Fino all’ultimo è stato in mezzo al suo popolo impartendo la benedizione “Urbi et orbi” per ribadire che l’amore per le persone – per il nostro prossimo – non può conoscere confini o barriere di tipo geografico o politico, né di tipo etnico o culturale. Francesco se ne è andato senza risparmiarsi, seppure in una condizione di oggettiva e visibile difficoltà di salute, senza rinunciare fino alle ultime ore di vita al contatto con le persone; quel contatto che ha sempre considerato importante e che – lo ha detto più volte – nobilita qualunque gesto di donazione materiale.
Francesco è stato probabilmente il papa più anticlericale della storia, nel senso che può avere l’anticlericalismo per un pontefice chiamato a guidare la Chiesa di Cristo nel mondo; ma comunque fortemente non-clericale, per non aver difeso una condizione da “casta” nella quale una parte della gerarchia ecclesiastica ha spesso la tentazione di rifugiarsi per evitare il confronto con la modernità e con la società che inevitabilmente (e in alcuni casi anche fortunatamente) cambia e si evolve. I suoi richiami al clero, avvolte anche ruvidi, hanno sempre avuto l’obiettivo di mettere la Chiesa in uscita per non farla rimanere chiusa e relegata tra le mura del tempio. Una chiesa come “ospedale da campo” che come tale si deve occupare di chi ha maggiormente bisogno di cura; ecco la chiesa di Francesco che va incontro agli ultimi, agli esclusi e ai dimenticati da una società che pensa a correre e accelerare senza occuparsi di chi non riesce a tenere il passo e si ritrova sospinto in una periferia esistenziale.
Anche la volontà testamentaria di essere sepolto a Santa Maria Maggiore e quindi fuori dal perimetro di San Pietro-Vaticano conferma la sua unicità e il suo voler essere cristiano tra i cristiani, prima ancora che Vescovo di Roma e Pontefice. Così anche con il suo ultimo “atto terreno” ha confermato di essere il Papa dei gesti più che delle parole, delle azioni più che dei proclami. E ci tornano alla mente i paradigmi espressi nella “Evangelii gaudium”, l’Esortazione apostolica che è considerata il programma del pontificato di Francesco: “Il tempo è superiore allo spazio”-“l’unità prevale sul conflitto”-“la realtà è più importante dell’idea”-“il tutto è superiore alla parte”.
Fino all’ultimo Francesco ha mostrato la sua coerenza con questi principi per la convivenza sociale, che ha indicato come necessari per “la costruzione di un popolo in cui le differenze si armonizzino all’interno di un progetto comune”. Francesco ha lasciato un altro importante segno con la Laudato Sì, prima enciclica di un papa dedicata all’ambiente e ai danni che può provocare l’uomo con un uso sbagliato delle risorse disponibili; con quel documento scritto nel 2015 introdusse i concetti di “ecologia integrale” e “conversione ecologica”; un forte richiamo all’intera umanità affinché il pianeta giunga alle future generazioni in condizioni di decenza ambientale, anziché di totale e irreversibile degrado.
A ben guardare, l’immagine iconica del pontificato di Francesco potrebbe essere – quasi paradossalmente – proprio quella delle sue spoglie che a bordo della papamobile traversano Ponte Vittorio Emanuele II lasciandosi alle spalle il cosiddetto “Oltretevere”. Un’immagine suggestiva e significativa quella del Papa che, terminata la sua missione terrena, lascia la Santa Sede per tornare nella città tra gli uomini e le donne del suo e del nostro tempo.