Impressionante e incredibile. È stata stimata in circa 400.000 persone la folla che, lungo le strade di Roma, molte facendo il segno della croce, diverse in ginocchio, molte con fiori in mano e tutte applaudendo, ha voluto attendere il passaggio del feretro di Papa Francesco. Forse un respiro di sollievo per quel cattolicesimo domenicale di chiese vuote, di seminari al lumicino, e con chiesette storiche di borghi storici sbarrate.
Durante le esequie e nella sua omelia, pubblicata da questo giornale (che vale la pena di leggere), il cardinale Re ha ricordato che Bergoglio, una volta convinto che “…la Chiesa è una casa per tutti”, esortava sempre alla costruzione di “…ponti e non di muri”. Una chiave di lettura per questo mio appunto.
Anch’io desideravo ricordarlo. Ho però volutamente atteso alcuni giorni e i suoi funerali. Mi era sembrato inopportuno intervenire a ridosso di teologi, filosofi, storici, noti studiosi, validi editorialisti, capi di Stato e politici, cari amici, e quanti altri hanno scritto su Papa Bergoglio: sul significato del suo papato, della sua testimonianza, sulle novità che ha portato a un cattolicesimo in piena crisi, attaccato da una secolarizzazione che non vogliamo vedere e capire. Un cattolicesimo sulla strada di trasferirsi in un monastero isolato di alta montagna, solo per pochi; di essere privatizzato e forse ripiegato soltanto sulla nostra interiorità, la quale non fa mai male, quando però dopo ci spinge a vivere nel mondo, e non a isolarci dal mondo. E avanza un cattolicesimo casalingo, intimistico e personalizzato, di stampo luterano e calvinista, insomma, col Vangelo da leggere ognuno per conto nostro. Un cattolicesimo di predestinati, in costante attesa di essere selezionati con la grazia di Dio e ricompensati, magari con la ricchezza, come ha sostenuto qualche famoso sociologo.
Questo mio appunto è stato però sollecitato anche da una signora che, intervistata da un TG Rai in Piazza San Pietro, ha definito Bergoglio: “un vicino di casa”!
Un’efficace allusione di vicinanza, di prossimità, che nella sua semplicità serve a farlo sentire uno di noi, che nasconde la stessa naturalezza del linguaggio popolare quotidiano, del pettegolezzo fra persone dirimpettaie, con la voglia di origliarci e ascoltarci l’un l’altro. Alla fine, un buon comunicatore popolano che si interessa di tutto. Proprio per queste particolari caratteristiche, ritengo però che non si possano capire sino in fondo il suo magistero, le sue parole e il suo insegnamento scritto e parlato, se non si ricorda che era ed è sempre rimasto un gesuita: “noi non scegliamo mai o Dio o il mondo, ma sempre Dio nel mondo”.
Se eravamo in attesa di un Dio confuso nella complessità della teologia, della filosofia teologica, o della sola spiritualità interiore e solitaria, ci sbagliavamo dunque di grosso!
Come tutti i gesuiti, un amante della povertà innanzitutto. E di quell’uguaglianza della “Lettera ai Galati” su cui, ritenendo superate le categorie francesi di destra e sinistra, anche il filosofo e politologo Norberto Bobbio, da autentico laico, scommetteva tutto: “non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3.28). Ma anche con il compito ignaziano di educare al cristianesimo con umiltà e castità, guardando sempre al futuro, e non al passato del conservatorismo cattolico e dei fondamentalismi in circolazione. Con sincerità e semplicità. Indossando stracci, e girando in missione per il mondo intero senza scarpe, con una scelta di evangelizzazione di prim’ordine. E ci risulta complicato capirlo se rimuoviamo il fatto che la stessa preferenza del nome Francesco, “Poverello di Assisi”, doveva in anticipo suggerirci molte cose su cosa sarebbe stato il suo pontificato.
Metto anche nel conto che i gesuiti e il gesuitismo, con il compito di adattarsi alla storia, ai tempi, ai luoghi delle missioni, alle varie culture antropologiche e ai diversi stili di vita che si incontravano, non sono stati da sempre ben compresi e amati.
Devo allora, con molta onestà, confessare che in questi suoi 12 anni di papato, ho costantemente amato e stimato molto Papa Francesco. Non solo per la voglia di riformare la sua stessa Chiesa, progetto avviato con la rivisitazione di alcuni responsabili interni al Vaticano, la sua fiducia sul dialogo, paradigma del sinodo con i suoi incontri di base locali e di relazioni, conclusa con l’appoggio pieno alla Settimana Sociale di Trieste e alla sua rete, e con i primi timidi tentativi sul ruolo delle donne dentro la Chiesa, e dentro le parrocchie deserte. Ma soprattutto per la sua capacità di leggere i segni dei nostri tempi dalla parte degli ultimi, e di capire e interpretare, alla luce del Vangelo, la storia che viviamo. Mi sono sempre trascinato dietro soprattutto la sua metafora, profetica, a mio avviso, della sola e unica barca dove siamo senza distinzioni imbarcati. Usata ai tempi del Covid, ma il cui significato esulava dal particolare momento critico sanitario globale, e interpellava la stessa inimicizia guerrafondaia crescente fra “sovrane” nazioni e autonome patrie, fra ri-sognati imperi ottocenteschi, e rinnovati capitalismi in mano a quell’1% di tycoon superricchi del mondo, avendo invece da affrontare crescenti sfide comuni che interessano tutti noi, e non un solo continente, un solo stato, una sola parte, o peggio un solo partito.
Si pensi solo al clima, alle migrazioni, all’IA, alla fame e alla povertà, alla CO2, alla robotica, ai ghiacciai che si sciolgono. Ai nuovi lavoratori sostituiti dai robot.
Una unica e sola barca che, tradotta anche nella democrazia politica dei nostri giorni, liberale e sociale, ci dovrebbe fare capire che, avendo da affrontare sfide comuni che interessano tutti, risulterebbe anche inutile e senza senso la frantumazione partitica con le tante barchette sulla scena dell’offerta elettorale, diverse solo per il nome del leader rematore, e per la crescente voglia di essere isolati capi forti, in grado però di fare della politica uno spettacolo permanente. Scaglie e pezzetti spesso offensivi di un autentico ed irrinunciabile pluralismo politico e democratico, in quanto fotocopie di strutturali valori sociali, e di idee politiche portanti e centrali per tutti. Una unica barca dove conviene salire a più gente possibile, per farla navigare sopra un mare in tempesta da tempo. Sul mare di una società fortemente interconnessa, non solo e non tanto a causa di internet, ma perché tutta insieme ormai appoggiata sulla centralità del mercato, inteso come luogo dove si deve solo contrattare per arricchirsi, magari ricorrendo alle guerre teleguidate. Una società sfidata dalle rivoluzioni epocali e dai cambiamenti che accennavo. Non dimenticando mai la “terza guerra mondiale a pezzi”, e mettendo nel conto anche le mutazioni antropologiche e culturali causate dal Web. Vivendo insomma un “…cambiamento di epoca, non soltanto un’epoca di cambiamenti” con le sue “…metamorfosi”.
La sua capacità di comunicare e di fare capire anche le cose più complicate e serie con una semplicità da “curato di campagna”. Il suo sconfinato amore verso quell’uguaglianza su cui, come ho detto, scommetteva anche Norberto Bobbio, l’interesse dimostrato verso i poveri, i carcerati, i clochard, i transgender e “diversi”, verso gli omosessuali, “…anche loro figli di Dio”; la sua recente comparsa in pantaloni, col poncho argentino e la borsetta, sin dentro la Basilica di San Pietro, la sua passeggiata nel negozio dell’ottico, assieme al suo citare quotidianamente la pace, e alle sue critiche al capitalismo e alla proprietà privata come diritto assoluto, che qualche interessato ha stupidamente definito di matrice cattocomunista o da Teologia della liberazione, hanno poi fatto tutto il resto, diventando i segni più nobili e cristiani del suo pontificato francescano, con gli occhi sempre ben aperti, e le orecchie tese sul creato.
La vista lunga di Bergoglio ha toccato anche la cura della democrazia politica. Assieme alla sua crisi ormai denunciata da più parti: “…la democrazia è un tesoro di civiltà che va custodito…abolendo le frontiere” come specifica mons. Ravasi. E con qualche studioso che, com’è noto, parla addirittura di post-democrazia.
Nel capitolo 5° della sua “Fratelli Tutti”: “La migliore politica” (paragrafi 155, 156, 157), le sue acute riflessioni su questa crisi sono chiarissime. Quelle sul liberalismo e sul totalitarismo. Quelle sull’uso diffuso e improprio dei termini “populismi e liberalismi”. Oppure “popolare e populista”, “populismo e populista”. Punti deboli e chiavi di lettura diffusi quotidianamente nella polemica politica dei nostri giorni, che però – come scrive Bergoglio – il “…tentativo di fare sparire dal linguaggio…la nozione di popolo…potrebbe portare a eliminare la parola stessa democrazia intesa come governo del popolo…”.
Mi fermo, ma ritornerò su Papa Francesco sicuramente, perché è stato un Papa il cui insegnamento non va dimenticato. Anche Mattarella, con il suo ripetere spesso che i nostri sono tempi in cui bisogna darsi da fare per costruire e non per ri-costruire, ricordandolo a Genova il giorno della liberazione e citando la “Fratelli Tutti”, ci ha tenuto a sottolineare il suo costante impegno per la pace nel mondo, e le sue costanti esortazioni a “…superare i conflitti anacronistici”. Roba non da poco!