L’aggressione russa all’Ucraina ha posto l’Europa di fronte ad una dura realtà, che pareva dimenticata dopo decenni di pace sul suo territorio: la possibilità della guerra, di nuovo, dentro i suoi confini.
Per la verità, già nell’ultimo decade dello scorso secolo l’implosione della Jugoslavia e il successivo intervento NATO avevano riportato sul suolo del continente distruzioni e tragedie che – prima volta nella storia – erano state risparmiate ai popoli europei per alcuni lustri vissuti nella pace e nello sviluppo oltre che nella libertà. Ma in un qualche modo la risistemazione del mosaico balcanico, per quanto ancora oggi non completamente stabile (come qui si è osservato in un recente articolo) ha contribuito ad un qual certo oblio di quegli eventi. Sino ad ora. Sperando che nuovi sviluppi, sempre possibili, non impongano un loro ripasso storico.
Fu comunque anche in seguito a quell’intervento della NATO che, dopo l’11 settembre e la successiva guerra americana in Iraq, gli Stati Uniti cominciarono a porre sul tavolo la questione di un riproporzionamento delle spese di gestione dell’Alleanza Atlantica. Già con Bush jr. e poi con Obama venne avanzata la richiesta ai partner europei di un loro maggior contributo finanziario, motivato dalla necessità statunitense di impegnare maggiori forze nell’area dell’estremo oriente e dell’oceano Pacifico a fronte della sempre più intensa assertività cinese, favorita dall’imponente crescita economica del Dragone determinatasi nei primi due decenni del nuovo millennio.
Un accordo che poi, con Trump alla Casa Bianca e dopo con Biden, è stato individuato nel 2% del PIL di ogni singolo paese aderente, essendo nel frattempo aumentati – fra l’altro – gli stati membri in seguito alla fine dell’impero sovietico e della sua alleanza militare conosciuta come Patto di Varsavia. Un impegno però assolto non da tutti, e anzi per un lungo periodo da pochi. Ora però con il ritorno di Trump a Washington la richiesta americana (accompagnata, nello stile ruvido e spaccone del tycoon da minacce di disimpegno non solo ipotetico) è stata elevata ad un improbabile 5%, percentuale che presumibilmente è stata indicata per raggiungere poi un pur sempre impegnativo, ma un po’ meno, 3,5%. Se ne parlerà nel concreto al prossimo summit dell’Alleanza che si terrà a l’Aia il prossimo mese. Il Segretario di Stato Marco Rubio ha già detto che il 5% è il target finale, ma in un arco di tempo dilatato. Ragion per cui è ipotizzabile che la trattativa verterà su un 4% poi mediato al 3,5% e da conseguire in tempi sufficientemente brevi (2/3 anni) associato alla riduzione degli effettivi USA (e dunque dei loro costi) in Europa, mentre quest’ultima, in contemporanea, attraverso il programma di riarmo recentemente stabilito aumenterà le proprie autonome spese militari.
Sono tutte risorse economiche e finanziarie che vengono sottratte al welfare per venire bruciate nel settore degli armamenti. Una dura realtà determinata dal neo-imperialismo russo. Ma anche dalla nuova postura americana, decisamente meno concentrata sull’Europa – come fu lungo tutto il periodo della Guerra Fredda – e molto maggiormente focalizzata sul confronto con la Cina, da un’altra parte del mondo.
Ora, è evidente che l’apprensione circa le “tentazioni” (o “ambizioni”?) di Mosca è maggiore nell’oriente europeo, ovvero nei paesi che sino all’89/91 furono parte dello schieramento situato al di là della Cortina di Ferro: non è un caso che la Polonia, il più grande fra questi, abbia votato già ora un bilancio che dedica alla Difesa proprio il 5% del PIL. La percezione della possibile minaccia è differente fra est e ovest d’Europa, è evidente. Ma in una certa misura essa sta raggiungendo anche le capitali occidentali, e a tal proposito le recenti indiscrezioni sull’interessamento russo alla Finlandia non possono che accelerare questo percorso: e così Berlino ha deciso di infrangere un tabù, rivedendo il tetto al debito del bilancio, per rafforzare il proprio apparato militare superando ritrosie e timori durati 80 anni; Parigi evoca il proprio status nucleare, eventualmente a protezione di tutti gli europei (ma saldamente da essa controllato); Londra utilizza la circostanza per “riagganciare” in un qualche modo l’UE nel dopo Brexit. E’ inevitabile che pure Roma e Madrid, per limitarci qui alle altre grandi capitali, si debbano adeguare alla nuova situazione venutasi a determinare.
L’Unione Europea è posta di fronte a una realtà difficile da contestare: ovvero che dal 1945 il continente è stato protetto dal sistema di deterrenza militare approntato dagli USA. Ora esso verrà, in parte, ridotto e dunque dovrà essere mantenuto con un maggior impegno economico dei paesi del continente. A partire da questa considerazione, e poi dai suoi sviluppi concreti, occorrerà però che – oltre il Readiness 2030 – si avvii da subito quell’indispensabile percorso di razionalizzazione e sinergia fra le diverse Forze Armate nazionali che consentirebbe sicure riduzioni delle spese, assolutamente indispensabili, oltre che maggiore efficienza complessiva. Ma che solo una maggiore integrazione politica, e conseguentemente militare, potrà garantire. Dunque, come si vede, alla fine sempre a quel punto si arriva: l’unità politica europea è indispensabile. Ma resta molto lontana, molto difficile da raggiungere.