Adesso sul referendum dell’8-9 giugno è tutto più chiaro. La scelta, corretta sul versante tecnico-giuridico e comprensibile sul fronte politico, di Giorgia Meloni ha dissipato gli ultimi dubbi, se mai ce ne fossero stati. Uno su tutti, al di là della fisiologica propaganda delle rispettive fazioni politiche. E cioè: il referendum è nato – come quasi tutti sanno – come una semplice e coerente operazione politica della sinistra italiana, coordinata dal segretario generale della CGIL Landini e finalizzata a stabilire la leadership futura di quel campo, il cosiddetto “campo largo”. Era noto, del resto, sin dall’inizio e per bocca degli stessi protagonisti.
E questo perché, quando il duo Landini/Schlein sostiene ripetutamente che l’obiettivo politico del referendum è quello di “prendere un voto in più dei consensi ottenuti dalla coalizione di centrodestra alle elezioni dell’ottobre 2022”, non c’era alcun bisogno di ulteriori approfondimenti sulle vere motivazioni del voto dell’8-9 giugno.
L’astensione come risposta legittima
Del resto, è anche un po’ anacronistico nonché singolare – se vogliamo avere un briciolo di onestà intellettuale – che si pretenda dal centrodestra di governo la condivisione di un progetto politico che riguarda solo ed esclusivamente la prospettiva politica della sinistra italiana. Ed è stato ancor più sorprendente assistere ai ripetuti attacchi personali, accompagnati da un linguaggio addirittura feroce, contro la Presidente del Consiglio dopo che la stessa ha sostenuto la sua scelta astensionista. Prassi, come tutti sanno, ampiamente praticata nel passato da vertici istituzionali, uomini di governo e interi partiti. Anche, e soprattutto, della sinistra italiana nelle sue multiformi espressioni.
Ma la scelta di Giorgia Meloni, ultima in ordine temporale, è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il caso. Perché d’ora in poi, ufficialmente, si tratta di una partita tutta interna alla sinistra. La differenza è che prima era una contesa nel campo della sinistra a livello ufficioso. Adesso è diventata, ufficialmente appunto, una gara all’interno della coalizione progressista e di sinistra. Con tanti saluti, come ovvio e scontato, ai contenuti dei quesiti referendari, che sono del tutto avulsi rispetto alla vera posta in gioco.
Un vero congresso del PD: la sfida è sulla leadership
Per queste ragioni, credo che non abbia completamente ragione un fine intellettuale e politico come Arturo Parisi, quando ha sostenuto che il referendum dell’8-9 giugno è “il vero congresso all’interno del PD”. Certo, anche questo è vero, ma più che il congresso del PD è in gioco la leadership della coalizione dell’alleanza di sinistra.
Ecco perché, al di là della scontata propaganda di rito, Giorgia Meloni ha avuto l’indubbio merito di smascherare definitivamente e irreversibilmente l’operazione messa in campo dai promotori del referendum e supportata dai rispettivi sponsor mediatici, televisivi e giornalistici. Un’operazione, comunque vada a finire, che conferma un antico assunto: i referendum abrogativi hanno un merito e possono giocare un grande ruolo politico e culturale quando interpellano direttamente le questioni che attengono alla coscienza dei cittadini.
Quando, invece, sono soltanto escamotage chiaramente e visceralmente politici, lo stesso istituto referendario assume tutt’altro significato e, di conseguenza, non può che essere letto ed interpretato con altri criteri. Come, appunto, è capitato concretamente in questi giorni dopo le parole del Presidente del Consiglio.