Un aereo supersonico che trasporta in poche ore, da un continente all’altro, una rock-star, solo per permetterle di suonare nello stesso giorno in due stadi diversi: il tutto per raccogliere soldi contro la fame in Africa. L’impresa eclatante e un po’ narcisista, compiuta, grazie al Concorde, dal mitico batterista dei Genesis Phil Collins, resta nell’immaginario di molti il simbolo del Live Aid, il mega evento musicale che il 13 luglio 1985, con due concerti simultanei a Londra e Filadelfia, trasmessi via satellite in diretta mondiale, mobilitò oltre un miliardo e mezzo di spettatori per una causa drammatica: la carestia che colpiva l’Etiopia. Trascorsi quattro decenni, il libro Live Aid. Il juke-box globale compie 40 anni di Angelo De Negri e Aldo Pedron (Roma, Arcana, 2025, pagine 552, euro 25), si incarica di restituirne il senso, attraverso dati, testimonianze, analisi storiche e aneddoti, svelandone le premesse, l’impatto e le ambivalenze.
Joan Baez, quel giorno, urlò alla folla di Filadelfia «questa è la vostra Woodstock!». Ma — come spiega nella prefazione Ezio Guaitamacchi — non c’erano tante analogie con la celebre «tre giorni di pace, amore e rock» del 1969. Quello fu un movimento spontaneo, simbolo della controcultura giovanile hippy, incarnata da Jimi Hendrix, Janis Joplin e Joe Cocker, questo un grande evento pop televisivo, organizzato e tecnologico, concepito nell’era dell’edonismo, gli anni dei Duran Duran, Spandau Ballet e di Madonna, non a caso protagonisti al Live Aid. L’evento incarnò lo spirito di Woodstock solo mostrando che, quindici anni dopo, la musica poteva farsi di nuovo portavoce di motivazioni umanitarie e che, sulla scia di eventi come Concert for Bangladesh e No Nukes «possedeva ancora una capacità di aggregazione formidabile».
L’Etiopia, a metà degli anni ‘80, è devastata da una spaventosa carestia, aggravata dalla siccità, da una guerra civile e dalle politiche di un regime militare. Quella tragedia — resa nota al mondo da un reportage della Bbc — scuote la coscienza del cantante irlandese Bob Geldof che coinvolge l’amico degli Ultravox, Midge Ure. Da lì, nel dicembre 1984, il primo mega gruppo Band Aid, che riunisce le star del pop britannico per incidere a scopo benefico Do They Know It’s Christmas, a cui s’ispirano un mese dopo i cugini statunitensi con la loro We are the world. Poi, a luglio ‘85, l’evento globale: 16 ore di musica, 75 artisti, due stadi, una diretta trasmessa da centinaia di emittenti televisive e radiofoniche, in 150 Paesi, 150 milioni di sterline raccolti. Insomma: il Live Aid.
Un sogno per i fan: artisti come i Queen, David Bowie, Elton John, gli U2, i Led Zeppelin, Bob Dylan, Sting, Paul McCartney, Mick Jagger e Tina Turner, Crosby, Stills, Nash & Young e gli Who — solo per citarne alcuni — si alternano sui palchi di Wembley e del JFK Stadium. Per la prima volta, la musica, come linguaggio universale, sembra farsi megafono della compassione globale.
Come sottolinea Giovanni Fabbi nel saggio introduttivo al volume, il Live Aidnasce nell’epoca in cui, sulle due sponde dell’Atlantico si vive il passaggio «a un’economia di tipo neo-liberale». Da un lato la Gran Bretagna della Thatcher, divisa tra yuppies e minatori in sciopero, dall’altra gli Stati Uniti di Reagan, dove il liberismo danza sulle macerie del New Deal. La cultura popolare riflette lo spirito dell’“io” più che del “noi”: sono gli anni di MTV, della spettacolarizzazione, dei consumi di massa, la musica leggera appare sempre più disimpegnata. Ma un evento che nasce nel cuore dell’Occidente, guardando al Sud del mondo, sembra dimostrare il contrario: l’arte può farsi anche coscienza civile.
Il libro ha il merito di non cedere alla mitizzazione acritica. Se il Live Aid fu un successo mediatico senza precedenti, non mancarono le ombre. Alcuni artisti aderirono per visibilità, altri non parteciparono in aperta polemica con gli intenti, ritenuti ipocritamente benefici, degli organizzatori. Pictures of Starving Children Sell Records (“Le immagini di bambini affamati fanno vendere dischi”) è il titolo dell’album della band britannica Chumbawamba, pubblicato nel 1986 in aperta critica con il Live Aid. Ma, soprattutto, non tutto il denaro raccolto raggiunse i villaggi etiopi. Una parte finì nelle mani del regime di Mènghistu Hailé Mariàm che secondo molti usò gli aiuti per rafforzare il suo potere.
«Un caos organizzato», lo definisce il libro, mostrando i retroscena di un evento che, pur nobile nell’intento, portò con sé le contraddizioni di un’industria musicale sempre più globalizzata e commerciale. Ma anche una nuova consapevolezza: la musica pop non era solo intrattenimento, poteva diventare strumento di pressione, aggregazione, testimonianza.
Quarant’anni dopo, Brian Eno, artista britannico e attivista per la pace, annuncia Together for Palestine: un concerto benefico alla Wembley Arena il 17 settembre 2025. Il ricavato andrà in aiuti umanitari per Gaza. Echi lontani del Live Aid, ma con un messaggio più esplicitamente politico. Ed è anche l’estate del Giubileo di un milione di giovani a Tor Vergata, che la Cnn ha ribattezzato «la Woodstock cattolica». Stupisce qualcuno che, nell’era della tecnocrazia, la religione sia ancora una scintilla che affascina e aggrega, in modo non virtuale. Come diceva Henry Miller, è forse ancora vero che «arte e religione non servono a niente, tranne che a dare un senso alla vita».
[Articolo pubblicato sull’Osservatore Romano il 9 agosto 2025]