L’articolo riprende una riflessione scritta per “Vita pastorale”, ampliandola e contestualizzandola come ripresa e ulteriore svolgimento di una riflessione apparsa sul sito di “Connessioni” nel marzo scorso. Attingere all’originale attraverso il link permette di leggere anche le note (qui omesse).
Alcuni mesi fa (per la precisione, all’inizio della primavera, in uno scenario che – per quanto non remoto – è ormai completamente mutato, a riprova di quanto questa strana stagione ci ponga di fronte a continui rivolgimenti di fronte), chi scrive offriva dalle pagine di questo sito una piccola riflessione sulla necessità di una “ecologia istituzionale” che possa, all’esito del “tempo di pandemia” dal quale siamo attraversati, rinnovare alcune delle coordinate che determinano gli equilibri attuali fra i poteri pubblici e i cittadini.
Premessa del discorso è che, più che di veri punti di equilibrio, si debba parlare di “dis-equilibri”, ossia di approdi sdrucciolevoli ed insicuri, prodotti di lunghi rivolgimenti mai pienamente maturati; del perdurare, accanto a non del tutto dischiusi embrioni di cambiamento, di una grammatica antica del diritto e del potere (ancora imperniata sul dominio concettuale dell’arsenale ideologico della statualità moderna), lasciata a gestire – inadeguatamente – un magmatico divenire della realtà socio-economica.
Ulteriore premessa è quella tratta dall’osservazione del tempo di crisi in cui siamo immersi: crisi che, agendo da catalizzatore di tendenze e di fenomeni socio-economici già in atto, ha costretto e costringe tutti noi a confrontarci, attraverso lo specchio distorto e allucinato della malattia e della morte in quanto fenomeni collettivi con i grandi problemi e con le grandi ferite del nostro contesto post-moderno.
Come si accennava in quella occasione, non può negarsi che l’epidemia abbia svelato, innanzitutto, la drammaticità di una tenaglia in cui siamo intrappolati, quella cioè che vede da un lato un sistema produttivo che, nel crepuscolo della dinamica capitale-lavoro, fa leva sulla circolarità (nel debito) dell’economia finanziaria e sulla riduzione del lavoratore (e del civis) a puro consumatore; e, dall’altro lato, un sistema istituzionale in affanno, che cerca di dare risposte al tempo della crisi ripescando l’armamentario della statualità moderna nella sua versione “forte”, monolitica, accentratrice, quando non schiettamente autoritaria, proponendo la grammatica del potere sovrano come unico tessuto di protezione per individui, altrimenti soli, in balia di fenomeni che si danno su scala troppo ampia per essere controllati.
Si tratta, come ognuno vede, di una tenaglia che poggia su due grandi illusioni: quella della crescita infinita del prodotto(impossibile in un mondo di risorse finite, e peraltro nemmeno più abbondanti) e quello della statualità come approdo ultimo della ragione politica (lo Stato vive nella Storia e come ogni prodotto storico ha avuto un inizio e avrà una fine). Ma questa tenaglia, si intende, non è stata certo creata dall’emergenza: al contrario, l’emergenza ha portato allo scoperto delle correnti carsiche che percorrevano la nostra società al di sotto dell’ingannevole calma del quotidiano (con le sue distrazioni).
A riprova di questo formarsi della tenaglia di cui stiamo parlando in una vera e propria longue durée, chi scrive andava citando alcune delle critiche ormai “classiche” alla società di massa novecentesca (di cui la post-modernità eredita tutti i problemi, estremizzandoli e affastellandone degli altri), sottolineando come esse suonino oggi attuali ai limiti del profetico. L’esempio posto sotto la lente di ingrandimento, allora, era stato quello della veemente posizione “antimoderna” di un pensatore economico-politico tornato di recente alla ribalta, perché visto come uno dei possibili ispiratori del pensiero e dell’azione di Mario Draghi. Si tratta di Wilhelm Röpke, noto come teorico della c.d. “terza via” e padre ideale del c.d. “ordoliberismo”, dommatica di politica economica (ma non solo) che per molti (critici) è profondamente iscritta nell’agire delle istituzioni europee, tanto da orientarne in modo quasi ineluttabilmente meccanico le scelte.
Proprio la connessione inevitabile (e non ingiustificata) che si istituisce fra Röpke e il pensiero c.d. “ordoliberista” ha offerto il destro ad alcune critiche, che chi scrive ha trovato molto interessanti, alle posizioni espresse nel piccolo intervento al quale più volte ci si è richiamati. Sembra quindi il caso di chiarire ed espandere, allora, alcuni punti fondamentali del ragionamento, forse lasciati in ombra dalla mancata piena esplicitazione del senso del rimando al pensiero dell’economista di Schwarmstedt.Sottinteso di quel rimando è la convinzione che Röpke “antimoderno” sia, in verità, molto più “contemporaneo” ed attuale di quanto la sua eredità nel campo del pensiero economico possa far supporre.
È necessaria una attenta analisi della critica di Röpke (ma di tanti altri) alla perdita di senso della vita umana spersonalizzata, ridotta a mera individualità dal predominio della tecnica e da una concezione, in fondo, autoritaria della politica. D’altronde, non può che essere autoritaria ogni concezione che si imponga la salvaguardia di un “collettivo” di individui, perché il bene comune di questo “collettivo” è nella salvaguardia del tutto prima che delle parti, come già insegnava Jacques Maritain; ben altra cosa è, invece, il bene comune di una società che si concepisca come società di persone: questo è un bene comune per-la-libertà, poiché deve risolversi a vantaggio e beneficio della persona umana, che mira a realizzare la propria dignità e la propria libertà.
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