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A quale criterio di opportunità risponde l’assunzione di Foschi (Pd) alla Regione Lazio?

In realtà, la domanda ancora più incisiva e dirimente riguarda la sostenibilità di un metodo largamente clientelare, per lo più indirizzato in questi anni a vantaggio di quadri e iscritti del Pd.

Una nota dell’Adn-Kronos, a firma di Silvia Mancinelli, ha messo in subbuglio ieri pomeriggio il Pd romano, non senza suscitare in generale curiosità mista a stupore. È stata l’agenzia di stampa a rivelare che il segretario di Roma, Enzo Foschi, ha trovato lavoro: infatti dal primo settembre è stato assunto dal presidente del Cal (Consiglio delle Autonomie Locali della Regione Lazio), Sandro Runieri, con una imprecisata funzione amministrativa. L’interessato ha dichiarato all’agenzia che si tratta di un contratto a tempo determinato con “uno stipendio normalissimo, tra i 1600 e i 1800 euro”. Per giunta, nel caso in cui alle prossime elezioni del Cal, in programma il 9 novembre prossimo, dovesse esser nominato un presidente di opposto schieramento rispetto al suo, il segretario dem non esiterebbe a dare le dimissioni.

Il nocciolo della difesa di Foschi consiste nel ricordare la natura del Cal, un organismo regionale indipendente. “Non c’entra nulla con il presidente della Regione” – ha voluto precisare, perché si tratta di “un ente strumentale, il cui presidente non viene nemmeno nominato dal governatore o chi per lui, ma eletto dai sindaci del Lazio, a maggioranza di centrosinistra”. Da qui la conclusione rispetto alla opportunità di questo incarico di lavoro: “Non ho alcun imbarazzo, visto che ho anche una esperienza amministrativa tale che mi consente di assolvere le funzioni che il Cal svolge, cioè controllo sui bilanci e sostegno ai comuni”.  

Ora, tutta l’argomentazione di Foschi si presta a un interrogativo molto semplice: non stride con il buon senso la combinazione per la quale alla vittoria della destra, e quindi alla sua legittima funzione di governo, si associa un “normale ingresso” – diciamo così –  in organismi regionali, ancorché indipendenti, di un esponente autorevole del principale partito di opposizione? A dire il vero, poi, la domanda ancora più incisiva e dirimente riguarda la sostenibilità di un metodo largamente clientelare, imparagonabile per dimensione e sistematicità con le blande operazioni della cosiddetta prima repubblica, grazie al quale numerosi quadri ed iscritti del Pd nel corso degli uanni sono stati assunti a chiamata diretta o, secondo gli inquirenti, con dubbie procedure concorsuali. È chiaro che a tutto ciò dovrebbe rispondere anzitutto il segretario del partito, anche perché a Roma rappresenta il nuovo Pd della Schlein; dovrebbe cioè assumere lui l’onere di una vera riflessione politica che aiuti a sciogliere il viluppo di usi e costumi disdicevoli. Ma come fa, il segretario dem, se lui stesso è coinvolto in questo marasma da cui il Pd dovrebbe uscire quanto prima?

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