Articolo pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Nicla Bettazzi

È ad Abraham Lincoln, sedicesimo presidente degli Stati Uniti d’America, che si deve la ratifica nel 1865 del XIII Emendamento della Costituzione americana che, almeno sulla carta, mise fine alla schiavitù. 

Persona di ampia visione e lucido statista, Lincoln aveva chiari gli scenari del suo paese sconvolto dalla guerra di secessione, «un territorio selvaggio da conquistare con la forza», come racconta Herbert Asbury, in lotta con i nativi indiani, meta di europei disperati e avidi, di gang intrecciate al potere politico, la terra del bandito Mose, che si piazzava nel centro del fiume e respingeva le imbarcazioni soffiando. Mose forse doveva fare qualcosa di più terribile che mettersi a soffiare per bloccare dei battelli, ma l’esagerazione nasceva da qualcosa che esisteva. Un mondo primordiale e assoluto, laboratorio straordinario e contraddittorio di ogni possibile fenomeno, che Lincoln — vissuto in Kentucky e Indiana — aveva conosciuto bene avendone percorso le luci e le ombre.

Il libro Lettera all’insegnante di mio figlio (Torino, 2019, pagine 40, euro 15) torna in libreria per Einaudi ragazzi, in un’edizione con le splendide illustrazioni di Giulia Rossi e la nuova traduzione di Nadia Terranova. Lincoln si rivolge a un adulto del XIX secolo, a un mondo di quotidiana frontiera, dove l’essere duro con i duri trovava una sua ragion d’essere nella mancanza di un diritto e di leggi realmente condivise. Il messaggio ritorna però attualissimo nell’invito a innamorarsi della conoscenza e del percorso, non senza ostacoli, che essa richiede. Lincoln autodidatta al seguito di scuole itineranti, appassionato lettore, mantenne nei confronti dell’istruzione un permanente e vivissimo interesse, e questo scritto è quasi un testamento spirituale di cui l’insegnante è il depositario.

Tradizione vuole che il primo giorno di scuola di suo figlio, il presidente abbia inviato una lettera al maestro. Non c’è data certa su quando sia stata scritta, né per quale dei suoi figli. Quelle che abbiamo sono le parole rivolte, come padre, a una delle persone più importanti nella vita futura del suo bambino, quella che per prima lo accompagnerà fuori di casa, nell’avventura della conoscenza di un mondo nuovo. È un mondo complesso quello in cui sta entrando il figlio, il padre lo ripercorre narrandolo prima a sé che al maestro, in una richiesta di collaborazione gentile e commovente. 

Il bambino attraverserà guerre e tragedie, per questo bisognerà insegnargli la fiducia in se stesso e il coraggio, deve sapere che ci sono i corrotti ma anche gli onesti, che niente è più gratificante del lavorare bene. Anche gli insuccessi fanno crescere e vanno vissuti senza esagerazione, come le vittorie. È un’avventura, la scuola, che si dipana tra le tante conoscenze apprese dai libri e le esperienze vissute con persone nuove con le quali bisogna imparare a relazionarsi, senza soccombere né prevaricare.

«Gli insegni a credere nelle proprie idee, anche quando tutti gli diranno che sbaglia. Provi a dare a mio figlio la forza di non seguire la folla, quando gli altri non faranno che quello. Gli insegni ad ascoltare chiunque. Ma anche a mettere in discussione ciò che udrà e a serbarne solo il bene (…). Lo prenda per mano».

Nella lettera Lincoln manifesta una fiducia profonda verso la figura etica e sociale del maestro, e un giovanissimo premio Nobel, Albert Camus, tanti anni dopo (novembre 1957) sembra continuarne moralmente l’epilogo, quando a sua volta, ne invierà una, splendida, al suo primo maestro, monsieur Germain. «Quando mi è giunta la notizia, il mio primo pensiero, dopo che per mia madre, è stato per lei. Senza di lei, senza quella mano affettuosa che lei tese a quel bambino povero che io ero, senza il suo insegnamento e il suo esempio, non ci sarebbe stato nulla di tutto questo. Non sopravvaluto questo genere d’onore. Ma è almeno un’occasione per dirle che cosa lei è stato, e continua a essere, per me, e per assicurarle che i suoi sforzi, il suo lavoro e la generosità che lei ci metteva sono sempre vivi in uno dei suoi scolaretti che, nonostante l’età, non ha cessato di essere il suo riconoscente allievo».