Aggiornamenti Sociali | Sul pluralismo religioso, intervista a Mons. Luca Bressan.

Il redattore del mensile dei gesuiti di Milano svolge alcune riflessioni a partire dal caso della scuola di Pioltello. «Ci piace il pluralismo delle presenze religiose». Di seguito la seconda parte dell’intervista.

Paolo Foglizzo

 

[negli] incontri con comunità islamiche avete parlato anche del caso della scuola di Pioltello? Come hanno reagito alle prese di posizione della Chiesa ambrosiana?

Ne sono rimasti tutti colpiti, anche perché si trovavano sommersi dal polverone mediatico suscitato intorno a quella vicenda. Paradossalmente, alla fine è stato anche un bene, perché ci ha permesso di approfondire e di spiegare il senso di uno stare insieme restando diversi e rispettando le singolarità di ciascuno. Da questo punto di vista, il gesto di condividere il cibo ha una valenza simbolica molto profonda per le tre religioni abramitiche: significa creare legami di comunione. Per essere vera e profonda, questa comunione non può nascondere le differenze, ma ha bisogno di spazi di dialogo, in cui ciascuno può rivendicare la propria identità. In tutti questi incontri è emersa la preoccupazione condivisa di aiutare le giovani generazioni a percepire la differenza in modo positivo. In queste occasioni, così come in quelle in cui i riti di rottura del digiuno sono stati ospitati presso strutture della Chiesa cattolica, quando le comunità musulmane non dispongono di spazi adeguati, abbiamo constatato – ed è motivo di speranza – che i bambini hanno una naturalezza nello stare insieme e confrontarsi che ci lascia sperare che affronteranno queste sfide in modo diverso da noi adulti.

 

Al di fuori dei rapporti con le comunità islamiche, quali altre reazioni hanno suscitato le prese di posizione della Diocesi?

Le reazioni hanno confermato una sensazione di scarsa preparazione a vivere nel quotidiano, a livello locale, il confronto con un mondo come quello islamico, che ormai è tra noi ed è arrivato non per una spinta di proselitismo o di conquista religiosa, ma per motivi sostanzialmente economici: la gente, venuta qui alla ricerca di lavoro e di una vita più dignitosa, si è portata dietro la propria cultura e anche la propria fede. Ci ha stupito vedere la fatica e il disorientamento che questo provoca, innanzi tutto tra noi cattolici. Serve una maturazione che ci permetta di renderci conto che continuiamo a essere chiamati ad affermare la verità della nostra fede e l’universalità della salvezza che annunciamo in un contesto che però è diventato plurale. Universalità non coincide più con univocità, come poteva essere fino agli anni ’70 del secolo scorso.

 

E tra i cattolici? L’atteggiamento ufficiale assunto dalla Diocesi è stato condiviso?

Mi sembra di aver notato tre atteggiamenti diversi. Il primo, tutto sommato minoritario, è la condivisione piena e ragionata della posizione della Diocesi, accogliendone anche la profondità della prospettiva di fede da cui nasce e la ricchezza del lavoro compiuto dalla teologia delle religioni. Un secondo atteggiamento, ancor più minoritario del precedente, è il dissenso aperto, motivato dalla paura di uno smarrimento dell’identità cristiana che conduce a leggere il confronto nella chiave dello scontro. In realtà questa posizione non si accorge che la perdita dell’identità cristiana non è legata alla presenza di altre religioni. A qualcuno che mi diceva che quelli che vengono a vivere qui dovrebbero assumere i nostri valori mi è capitato di chiedere: «Ma lei a Pasqua è stato a Messa?». Mi ha stupito sentirmi rispondere, con fastidio: «Che cosa c’entra?». Ecco, la perdita dell’identità cristiana e dei suoi valori dipende dal fatto che non li custodiamo e non li coltiviamo, non dal fatto che gli immigrati musulmani non partecipano alla Messa o che ci impegniamo nel dialogo con loro. Il terzo atteggiamento, certamente il più diffuso, è quello di un silenzio pieno di apprensione verso la prospettiva del dialogo e del confronto. Per questo abbiamo bisogno di strumenti con cui rendere ragione di quanto facciamo come credenti. Non si può più vivere una fede di comodo, accontentandosi di rimanere nel solco di quello che ci è stato tramandato, senza una rielaborazione che sia all’altezza dei tempi che stiamo vivendo e quindi della sfida del pluralismo con cui siamo chiamati a confrontarci.

 

 

Per leggere il testo integrale dell’intervista

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