Dopo che la Presidente della Corte Suprema Brenda Hale – con voto unanime dei 12 componenti – ha dichiarato “nulla, illegale e priva di effetti” la chiusura del Parlamento e la conseguente sospensione della sua attività per 5 settimane disposta fino al 14 ottobre dal premier Boris Johnson, ratificata il 28 agosto dalla Regina Elisabetta e confermata il 6 settembre dai Giudici dell’Alta Corte Britannica di Londra, le porte della Camera si sono riaperte e il focoso BoJo (precipitosamente rientrato da New York dove partecipava all’assemblea generale dell’ONU) ha dovuto affrontare l’attacco scontato di Corbyn e dei laburisti.
“Per il bene del Paese se ne vada”, ha chiesto senza mezzi termini il capo dei labour ma ciò ha sortito l’effetto di irrigidire ancor più la ferma decisione di Johnson: “Il Paese uscirà dall’U.E. entro il 31 ottobre”. Siamo al muro contro muro e il tempo scorre spietato. La scadenza si avvicina e nel tourbillon dei colpi di scena e di una coreografia degna di una corrida le opzioni si restringono, le prese di posizione si affastellano, i rumors si sovrappongono e la piazza si scalda. Lo scopo del premier era di evitare interferenze parlamentari alla sua manovra di uscita dall’U.E. , prima della scadenza del 31 ottobre, anche mediante la via spiccia del ‘no deal’, per la quale sono state preconizzate conseguenze disastrose di tipo politico, istituzionale, economico e sociale. Abituati a criticare le faccende di casa nostra ora con distacco ora con sospetto, restiamo a bocca aperta nell’osservare la deriva confusa della lunga querelle inglese che forse fa impazzire i bookmakers ma che non promette nulla di buono. Per il Paese che conserva ancora alcuni principi giuridici basilari della Magna Charta Libertatum del 1215, la più antica Costituzione al mondo e che aveva retto la sconfitta alla “guerra dei cent’anni” (in realtà 116) con la Francia, la sovraesposizione mediatica mondiale della querelle Brexit si- Brexit no, rimessa di fatto in piedi dagli ultimi sviluppi che hanno visto il premier inanellare una serie di sconfitte anche personali (si pensi alle dimissioni del fratello Jo, viceministro) , si sta rivelando rovinosa.
Mentre il biondo Boris giura che sta negoziando con Bruxelles le condizioni di uscita, i laburisti lo attaccano dentro e fuori il Parlamento, pur timorosi di fronte all’ipotesi di elezioni anticipate, precedute dall’invito-sfida ad una mozione di sfiducia, che il premier getterebbe sul tavolo della partita a poker come spauracchio per una ripresa dei pieni poteri e l’obiettivo di condurre in porto la Brexit senza più impicci, spingendo all’angolo del ring Corbyn e i suoi. La situazione è confusa e grottesca: larga parte del Paese sembra aver mutato opinione e ciò che Boris teme è soprattutto una ripetizione del referendum exit/remain. Mentre l’artefice primo di questa lunga partita a scacchi, il mite Camerun scrive un libro dove tenta una sorta di autodifesa rispetto al pasticcio che si è venuto a creare, Boris è stato chiaro nel primo intervento dopo la riapertura del Parlamento: trattative con Bruxelles, i deputati si facciano da parte e lascino le mani libere al Governo di pilotare l’uscita entro il 31 ottobre, con o senza condizioni.
Intanto la vicenda del pronunciamento della Corte Suprema ha lasciato il segno: quello di una primazia della Corte Costituzionale come garante della legalità. In effetti la chiusura delle Camere aveva il sapore di un colpo di mano: togliere al potere legislativo le sue prerogative costituzionali.
La tripartizione del potere (legislativo, esecutivo e giudiziario) concepita da Montesquieu nel suo “L’esprit de lois” nel 1748, ritorna ed aleggia su tutti gli Stati moderni come perno intorno a cui ruota il concetto stesso di democrazia. E insieme ad esso la terzietà di un organo di controllo che garantisca la netta separazione dei poteri.
C’erano voluti 14 anni al filosofo francese per scriverla, non sono bastate poche settimane al leader britannico per cancellarne i principi fondativi. Si riparte da capo e la sfida si fa grottesca e drammatica.
Non resta agli inglesi che invocare l’inno nazionale: “God save the Quenn”.