Nell’anniversario della strage di via Fani e del rapimento del Presidente della Dc, riteniamo utile proporre uno stralcio (pp. 150-152) dell’ultimo libro del nostro direttore (Lucio D’Ubaldo, Amare il nostro tempo. Appunti sul giovane Moro, Edizioni Il Domani d’Italia, pp. 204, 15,00 euro) per l’interesse che può suscitare, in questo tempo difficile e ciò nondimeno “da amare”, una nuova riflessione politica attorno alla ripresa e allo sviluppo della lezione di Aldo Moro.

Il paradosso è che l’ideale democratico cristiano, sorto con Romolo Murri all’alba del Novecento in funzione del superamento dell’antitesi tra cristianesimo e modernità, “cada, come corpo morto cade”, abbandonato a se stesso. Sicché, mentre aveva anticipato di alcuni decenni le scelte dei Padri conciliari sul rapporto Chiesa-mondo, ora lentamente scivola nel dimenticatoio della storia, finendo per estinguersi al pari delle sue caduche manifestazioni storiche. Non è più visto come fonte di rinnovamento e autentica laicità, oltre le nebbie del postmoderno: alla fine, in questa incomprensibile nemesi storica, patisce la riduzione a controparadigma dell’iniziativa politica. Declassato o stroncato il motivo ispiratore, del “partito che non c’è” residua il pallore di simulazioni estemporanee. Solo la forza del racconto che fa propria l’evocazione della “giovinezza di Moro”, per riprendere in forma allusiva un’originale immagine che Moro propone del cristiano di fronte alla “giovinezza del mondo”, può reggere all’amarezza di questo smottamento sul terreno delle idee.

A dire il vero non si edifica un partito nemmeno abbarbicandosi alla memoria di Moro. Se questa fosse la tentazione, comprensibilmente per la fregola di uscire dal labirinto di attese frustrate, non si andrebbe lontano. Maggiore respiro si dà della ricognizione attorno alla storia, minore può essere il rischio d’intristimento nel gioco di soluzioni artificiose. Riprendere a pensare la politica coincide, in questa tradizione indimenticata, votarsi alla pienezza di un compito che attiene al perseguimento del bene comune, non in astratto o per formule perentorie, ma come obiettivo storicamente determinato. È un bisogno di concretezza e creatività che rompe la crosta della rassegnazione. Amare la Patria, allora che cosa significa? Poiché abbiamo sconsacrato la lotta di classe, anche se le classi non sono sparite e dunque nemmeno la loro lotta, riusciamo ad attrezzare una politica che agisca da fattore coesivo della società? Che vada incontro, perciò, alla bellezza di un sano patriottismo della cittadinanza, fuori dal sequestro delle ubbie sovraniste? E non è forse legittimo riattingere al discorso dell’uomo che ha più operato in chiave di progressiva integrazione politica, confidando nell’autentica dialettica di libertà e solidarietà, per un disegno di progresso?

Moro ha pensato la Dc, non si è limitato a constatarla. E nel medesimo tempo, attraverso la Dc, ha pensato l’Italia. In alcuni punti la sua lezione può anche rivelarsi inadattabile all’oggi, laddove specialmente l’incontro con la “politica elettrica”, di cui parlano Marshall ed Eric McLuhan nelle loro leggi dei media (Le tetradi perdute di Marshall McLuhan, 2019), comporta un fatidico attrito. Infatti, la politica concepita e messa in atto da Moro tutto è meno che elettrica: dunque, vista in superficie, è decisamente inattuale. Ma che conta se vince la volontà di penetrare il suo messaggio più profondo e ancora intatto?