Eletto Presidente, con la frattura di socialisti e democristiani, Leone fu “costretto” a sciogliere le urne. L’elezione di Mattarella ha registrato in extremis l’unità della maggioranza di governo. Il testo è pubblicato su “Democraticicristiani-Per L’Azione” in uscita oggi in versione digitale (pdf).
Maria Chiara Mattesini
Quelle del 1972 furono le prime elezioni anticipate in epoca repubblicana, ma altre, poi, ne sarebbero seguite. L’ultima volta era accaduto il 25 gennaio 1924, per “mettere a terra” il nuovo sistema elettorale voluto dai fascisti, che assegnava due terzi dei seggi di Montecitorio al partito di maggioranza relativa: era la nota “legge Acerbo”.
Ma parlavamo delle consultazioni del ’72. Presidente della Repubblica era il napoletano Giovanni Leone eletto, dopo due settimane di votazioni andate a vuoto, il 24 dicembre 1971 con 518 voti su 1.008: una maggioranza risicata ottenuta grazie al sostegno determinante – e però non ricercato dalla Dc – del Movimento Sociale Italiano di Giorgio Almirante. L’elezione di Leone fu tortuosa: servirono infatti 23 scrutini. I candidati a tale ruolo non erano mancati: in primo luogo Amintore Fanfani, inviso, però, a una parte degli stessi democristiani; quindi Pietro Nenni, che l’ombra di un neo-frontismo fuori tempo consegnava a un ruolo di testimonianza; e poi ancora Aldo Moro, ritenuto dai suoi stessi colleghi di partito, ma non solo, troppo spostato a sinistra.
A distanza di pochi mesi dalla elezione, la decisione di ricorrere anticipatamente alle urne fu presa da Leone in accordo con gran parte dello schieramento politico. Il neo-presidente, tra l’altro, avrebbe decretato anche la fine della sesta legislatura, cominciata il 25 maggio del 1972 e conclusa il 4 luglio del 1976. Malgrado le divisioni, i risultati del ’72 riconsegnarono al centro-sinistra la maggioranza assoluta dei votanti e del Parlamento: la Democrazia Cristiana rimaneva il primo partito; socialisti e socialdemocratici confermavano divisi i voti assommati insieme nel disciolto Partito Socialista Unificato; i comunisti, alla cui guida era da poco arrivato Enrico Berlinguer, rimanevano sostanzialmente stabili. Sull’altro fronte politico, i liberali subivano un forte arretramento, mentre il Movimento Sociale Italiano, che già l’anno prima, nella tornata parziale di elezioni amministrative, aveva incrementato i propri voti, continuava a crescere, raddoppiando i consensi e ottenendo il suo massimo storico.
Si comprende, allora, perché la Dc avesse manovrato in direzione del voto anticipato, dal momento che l’insidia della destra neo-fascista si era fatta particolarmente acuta. Si trattava di fronteggiare lo smottamento a destra dell’elettorato moderato. Anche altri partiti, però, avevano buone ragioni per sciogliere le Camere prima del previsto. Il Pci, ad esempio, temeva i dissidenti del Manifesto, con la prospettiva di un progressivo coagulo di forze alla sua sinistra. L’Italia del ‘72 era anche quella della bomba di piazza Fontana; era il paese del tentato golpe Borghese e della più lunga rivolta metropolitana, quella di Reggio Calabria, “cavalcata” dai missini. E poi, soprattutto, c’era la questione, temuta da quasi tutti gli schieramenti politici, del referendum sul divorzio, che slittò proprio per la convocazione dei comizi elettorali.
A confronto, dunque, la recente rielezione di Sergio Mattarella sembra avvenuta a tempo di record e l’attuale maggioranza si profila comunque più compatta rispetto al quadro delle forze di governo nei burrascosi anni che abbiamo appena ricordato. Leone al Quirinale, eletto sull’onda di un centro-sinistra che doveva registrare al proprio interno una frattura clamorosa, era perciò chiamato a “coprire” istituzionalmente la voglia di correggere il processo riformatore incarnato dall’alleanza strategica tra cattolici e socialisti. Nuove elezioni e nuovo esecutivo: il centrismo sarebbe riemerso con la costituzione del governo Andreotti-Malagodi. Tuttavia il ritorno, illusorio, alla stabilità col contributo dei liberali non fu una scelta di grande respiro.
Con Mattarella la stabilità ha un altro senso perché “costringe” la maggioranza a concentrarsi su stessa, per il bene del Paese. Non dimentichiamoci che nel 2023 si torna alle urne. Il cattolico e originariamente democristiano Costantino Mortati, uno dei padri della Costituzione, in un saggio del 1973 (“Lezioni sulle forme di governo”) metteva in guardia sull’effetto frenante, a suo avviso, della collocazione al centro della Dc. Esauritasi, poi, la parabola centrista, un sistema politico incapace di esprimere una diversa classe politica ha progressivamente portato al logoramento delle istituzioni (e del senso civico della cittadinanza). Sembra, oggi, di essere rimasti in quella condizione psicologica, pur non essendoci più il partito democristiano, con una estensione esasperata alla delega e con mediazioni estenuanti fra i partiti. Lo stato di emergenza (e ricordiamoci le riflessioni di Carl Schmitt a tale proposito) in conseguenza della pandemia ha fatto il resto.
Un’ultima considerazione a proposito di elezioni e riforma elettorale: già Mattarella si fece promotore di una legge, rimasta in vigore dal ’93 al 2005, volta ad introdurre un sistema elettorale misto, recependo, in parte, le indicazioni emerse dal risultato del referendum del 18 aprile 1993. Anche stavolta, se pur con un ruolo diverso, si troverà ad affrontare alcuni degli stesssi problemi. Non so se l’attuale situazione o, meglio, se la conformazione geopolitica dell’Italia suggerisca una riforma di tal genere, che aveva privilegiato i grandi partiti. È da notare, infatti, che il Gruppo misto è sempre più numeroso (nel caso della rielezione di Mattarella è stato anche decisivo). Ma qui entrano in ballo ulteriori riflessioni: i partiti, il reclutamento e la formazione della classe politica, il tema della rappresentatività, della governabilità e soprattutto la ricerca, come avrebbe detto, fra i primi, il sociologo Gino Germani, di un nucleo minimo comune di valori che ci consenta una convivenza ragionevole. Magari ci sarà tempo e modo di parlare anche di questo.