Sul Foglio di sabato scorso, Pierluigi Battista ha pensato bene di lanciare un imprevisto j’accuse sulla morte della Dc. Non la morte in quanto partito presente sulla scena pubblica, essendo questa una realtà oggettiva e perciò incontrovertibile, legata giuridicamente all’assemblea del 18 gennaio 1994. Lì si consumò infatti, nella splendida sala Perin del Vaga dell’Istituto Sturzo, la chiusura di un lungo ciclo politico con la trasfigurazione del partito fondato da De Gasperi alla caduta del fascismo. Si scelse di tornare alle origini e di recuperare il nome antico di Partito popolare.
Il problema è che alla scomparsa materiale della Dc è seguita l’estinzione, senza apparente disagio, della sua memoria nel dibattito pubblico italiano. È questo ciò che spiace a Battista, non tanto il fatto in sé della scomparsa dello scudo crociato, quanto la vacanza intellettuale che ne ingoia la portata storica, riducendo a scaramucce indignitose le lotte sull’eredità. Non basta. Al di là delle piccole beghe, irrilevanti sulla scena della vita democratica, conta il silenzio o l’amnesia di chi avrebbe il dovere di muoversi a difesa di un’enorme lascito politico. Non ci sono più democristiani e se anche ci sono tacciono, si nascondono, al più preferiscono camuffarsi.
Sembra la desertificazione morale di un vasto territorio un tempo fertile e rigoglioso. Come mai tanto abbandono?
Forse è sbrigativo parlare di fuga o diserzione dei pochi riservisti – per anagrafe o adesione volontaria – ancora collegati all’armata scudocrociata. Una ricognizione più serena permette di osservare fattori immateriali di speranza. Infatti, centri culturali di prim’ordine (Fondazione De Gasperi, Istituto Sturzo, ecc.), case editrici riviste e blog, gruppi sui social, associazioni di vario tipo, alcune particolarmente attive; un insieme di soggetti, insomma, svolgono pur sempre un eccellente lavoro di ricerca e approfondimento. Sono la grande risorsa che si rispecchia, tuttavia, in un disabitato universo civile. È allora nella società che si consuma una sorta di kenosis della Dc in quanto corpo storico visibile.
Eppure, andrebbe ricordato anche a Battista, se non altro a conforto della sua denuncia, che fanno rifletttere i risultati di certi sondaggi quando evidenziano l’esistenza di un terzo e più d’italiani desiderosi di riavere un “partito cattolico”. Cosa significhi, non è facile stabilirlo. Potrebbe essere l’indice di quella “voglia di centro” che trova riscontro in analoghe rilevazioni demoscopiche; come pure la speranza di un riassestamento del bipolarismo, magari con la percezione di quanto la cultura della mediazione, tipica del cattolicesimo politico, possa donare al Paese la mitigazione di un sistema maggioritario troppo infarcito di estremismi e populismi.
Battista ha preso di petto una questione, indubbiamente con l’acume del giornalista abituato a sviscerare i fatti e le notizie, ma s’è arrestato sulla soglia della recriminazione in bello stile. Ha scosso l’albero, non s’è curato dei frutti: non è andato cioè alla sostanza del problema, laddove s’annida la pregiudiziale circa l’inutilità della nostalgia, per cui si salta piacevolmente l’incombenza dell’analisi su “ciò che è vivo e ciò che è morto” dell’esperienza democristiana, aprendo in questo modo le ali al cielo della episodicità. Ogni tanto s’accende una luce e ogni tanto si spegne, con uno strascico di insofferenza e malinconia tra un intervallo e l’altro. Dunque, sta più nel pensiero la caduta delle passioni, come pure la volontà di riscatto dell’homo demochristianus, ancora non rassegnato alla sua estinzione. In fondo ha ragione Battista a richiamare all’ordine le coscienze smarrite.